Una storia di Natale

– Davvero tocca a me? – Domandò pensieroso.
– Sì, è stato deciso così, quest’anno è il tuo turno! – Gli venne risposto.
Non che volesse tirarsi indietro, anzi era emozionato: il compito gli pareva decisamente notevole e non era del tutto certo di esserne all’altezza ma non lo disse a nessuno.
Così prese il suo bagaglio e partì, attraversò le colline, costeggiò una verde vallata e giunse infine in un luogo a lui sconosciuto dove si mise in cerca di un posticino adatto a lui.
Non aveva mai viaggiato, quella città era vivace, trafficata, colorata, rumorosa, piena di persone e di voci, in ogni via e in ogni piazza aveva incontrato fiumi di gente, le strade erano illuminate a festa, i portoni ospitavano abeti decorati con le palline luccicanti.
Rimase meravigliato e stupefatto ma aveva un lavoro da portare a termine e lo avrebbe fatto con dedizione.
Oh, non era certo il primo ad essersi occupato di quella faccenda, altri lo avevano preceduto e sapeva bene che tutti si erano adoperati con cura e precisione, del resto era una questione della massima importanza.
Arrivò in un giardinetto e decise che quello sarebbe stato il posto perfetto, certo!
E così si mise all’opera, lavorò alacremente, dimentico di tutto ciò che accadeva attorno a lui.
Ogni tanto qualche passante si fermava a guardare incuriosito ma lui rimase sempre chino sul suo lavoro, senza mai distrarsi.
Poi, a tarda sera, terminò.
Era stanco ma soddisfatto, il risultato era esattamente come lui lo aveva immaginato.
Ed era stato talmente indaffarato con il compito assegnatoli da non accorgersi neppure che alle sue spalle si era radunato un gruppetto di bambini: erano lì seduti per terra uno accanto all’altro e ammiravano il frutto delle sue fatiche.
Voltandosi infine li vide: loro sorridevano allegri e anche il viso di lui si illuminò con un sorriso dolce.
La sua missione era quindi così terminata, era giunto il momento di rientrare alla base.
Piano si allontanò, mentre lentamente si affievolivano le voci gioiose di quei bimbetti che aveva incontrato.
Era felice, emozionato e colmo di gratitudine per essere stato, per quell’anno, l’angelo prescelto per fare il Presepe.

Giardini Pellizzari – San Nicola
Presepe del Movimento Rangers
per l’iniziativa solidale Natale che sia tale

C’era una volta un tappo di sughero

C’era una volta un tappo di sughero che amava soltanto il dolce far niente.
– Io non sono nato per faticare! – Ripeteva con voce stentorea mentre gli altri tappi lo guardavano allibiti – Nella mia famiglia nessuno ha mai lavorato, a noi si addicono le feste e la bella vita!
Bertrand era un pigro e viziato tappo di origine francese e con un certo tono altezzoso amava sottolineare che lui proveniva proprio dalla zona dello Champagne così come quel prezioso vino conservato nella bottiglia che egli custodiva.
– A quanto ne so – affermava sussiegoso – quelli come me sono destinati alle grandi occasioni, così è stato per mio padre e per i miei fratelli e così sarà anche per me!
– Noi invece siamo gente alla buona! – gli faceva eco la gretta della birra.
– Figurati noi! – replicava il tappo dell’olio sporgendosi dal ripiano della credenza mentre al suo fianco il tappo dell’aceto annuiva complice, quei due lì andavano da sempre d’amore e d’accordo e tutti lo sapevano.
Bertrand, invece, era aristocratico e solitario, in quella dispensa non aveva stretto amicizia con nessuno, il tappo del Barolo aveva cercato di attaccare bottone ma Bertrand lo trovava francamente un tipo troppo distante da lui.
Quello dei tappi era un mondo complicato e Bertrand era certo di distinguersi tra tutti gli altri.
Aveva le idee chiare sul suo futuro, lui attendeva soltanto il suo debutto in società e un bel giorno, a dicembre, finalmente giunse quell’istante tanto atteso.

Era Natale, attorno alla tavola riccamente imbandita sedevano i molti commensali, le fiammelle delle candele tremavano creando una calda atmosfera di serenità.
Bertrand si guardava intorno compiaciuto: la bottiglia nella quale abitava era stata posta nel cestello del ghiaccio accanto ad una fila di calici di cristallo i quali, a dire il vero, facevano un fracasso dell’accidente.
– State un po’ zitti! – li rimbrottò Bertrand – non riesco a sentire nulla!
Ma quelli, imperterriti, continuarono a tintinnare felici: c’era da comprenderli, in fondo uscivano pure loro solo per le feste e quindi il Natale era un momento memorabile.
Furono servite molte portate e infine, nell’allegria generale, giunse il momento di fare il brindisi: Bertrand non stava più nella pelle e anzi, ad esser proprio precisi, a breve non sarebbe stato più nella bottiglia!
Ogni ospite reggeva il suo bicchiere, con un gesto plateale il padrone di casa si apprestò ad aprire lo Champagne.
Bertrand trattenne il respiro, finalmente stava per essere il protagonista assoluto e infatti da lì a poco stoc… la bottiglia venne stappata e Bertrand saltò per aria esibendosi in un scenografico volo che lasciò tutti stupefatti.
E dovevate sentire il coro di voci:
– Evviva, evviva! Auguri, auguri!
Bertrand sorrideva tutto beato: quelle espressioni di giubilo si riferivano di certo a lui, su questo non aveva alcun dubbio.
Dopo cotanto spettacolare fragore il tappo planò a terra con leggerezza e nessuno parve più curarsi di lui.
Oh che delusione, mai avrebbe pensato di finire trascurato e abbandonato su un pavimento!
Lui era l’anima della festa, come potevano dimenticarsi di lui?
Passò ore e ore singhiozzando in totale solitudine e disperazione quando, al calar della sera, si sentì afferrare dalla mano della piccola Annina:
– Questo lo prendo io! – disse la bimba – sarà un perfetto guardiano per la mia casa delle bambole!
Con un pezzo di stoffa fece per lui una sorta di cappellino e una bella divisa e poi lo mise là davanti alla minuscola porticina.
Bertrand era incuriosito dalla sua nuova sorte, dentro a quella casa abitava una bamboletta biondina con tanti abitini di molti colori: custodirla era un compito gravoso e tra tanti tappi era stato prescelto proprio lui.
Da quel giorno così sentì il peso di una nuova responsabilità e con cura e attenzione restò sempre a guardia davanti alla casetta: lui che era famoso per la sua pigrizia e la sua indolenza aveva infine imparato la gioia di essere utile agli altri.

La prima rosa

Accadde in un giorno di aprile e colse tutti di sorpresa come un fatto davvero straordinario.
Alle prime luci dell’alba, mentre il sole diffondeva il suo vivido chiarore, l’oleandro sempre mattiniero esclamò stupefatto:
– Oh caspita, presto, presto! Tutti svegli! Presto, è ora di alzarsi!
Il rosmarino si stiracchiò indolenzito, la maggiorana si levò di soprassalto e il basilico pigro sbadigliò.
Le lavande affabili si profumarono per l’occasione, ci tenevano molto a distinguersi dagli altri fiori.
Le viole distesero per bene i loro petali colorati e si rimirarono con attenzione, erano tipe vanitose e non volevano certo sfigurare.
L’alloro la prese con filosofia, per così dire, era avvezzo ormai da tempo agli eventi di un certo spessore.
I gerani curiosi si sporgevano dai vasi per cercare di vedere meglio ma avevano davanti le alte orchidee petulanti che continuavano ad agitarsi per quell’evento memorabile.
Ne nacque così un’accesa discussione ma a sedare gli animi come sempre accorse la verbena che aveva davvero la capacità di calmare chiunque, a volte in suo aiuto arrivava anche la camomilla che pure era nota per le sue doti di mirabile pazienza.
Il cactus si girò dall’altra parte brontolando e continuò a dormire, era un tipo dal carattere spinoso e di tutte queste cerimonie poco gli importava!
Le tenere margherite osservavano commosse e intenerite, del resto erano note a tutti per il loro cuor d’oro.
Incerte dondolavano le fresie e le bocche di leone trillavano entusiaste.
Il sole brillava, le rondini volteggiavano nel cielo chiaro e i piccoli insetti ronzavano sulle corolle.
E tutti gli sguardi, colmi di sincera ammirazione, rimasero ad ammirare il miracolo della vita e della bellezza che sempre si rinnova: timida e delicata era così sbocciata la prima rosa.

Questa è davvero la prima rosa di questa primavera sul mio terrazzo.
Si è aperta ieri, con questa dolcezza.
Ho pensato che meritasse un gioco di fantasia e un benvenuto particolare, spero così che vi sia piaciuto salutarla in questo modo insieme a me.

L’albero paziente

C’era una volta un albero noto per la sua pazienza: quando nel bosco si parlava di lui erano tutti concordi, quell’albero era accomodante e di buon carattere, nessuno lo aveva mai sentito lamentarsi.
Eppure anche lui avrebbe avuto le sue buone ragioni per farsi sentire, tra i suoi vicini fracassoni c’era ad esempio una famiglia di petulanti civette e quando di notte attaccavano a cantare non c’era verso di chiudere occhio!
L’albero taceva e sopportava stoicamente.
Non si era nemmeno mai lagnato con gli scoiattoli che in certe giornate di sole facevano su e giù sul suo tronco, mai si sarebbe poi messo a discutere con i ricci, quelli non erano tipi con i quali affrontare argomenti spinosi, era meglio soprassedere.
L’albero era schivo e tollerante e tuttavia, malgrado fosse così solitario e anche un po’ timido, in certi periodi dell’anno attorno a lui si affollava una moltitudine di personaggi: le ghiandaie planavano intrepide sui suoi rami e poi se ne stavano lì a cianciare per un tempo infinito.
E l’albero paziente rimaneva in silenzio.
La volpe una volta aveva detto di aver sentito l’albero sospirare, era rimasta così ferma immobile in attesa di qualche altra reazione ma nulla, non era accaduto più nulla!
Era poi sopraggiunta anche una giovane faina e le due bestiole, ai piedi dell’albero, si erano messe a questionare sul famigerato sospiro che la volpe andava ripetendo di aver sentito mentre la faina scuoteva la testa e sosteneva di non saperne niente!
L’albero paziente restò in silenzio ad aspettare che quelle benedette creature finalmente se ne andassero.
Erano così certi giorni dell’anno, l’estate poi portava gioia ed allegria, l’albero non l’aveva mai confidato a nessuno ma lui era veramente felice quando il piccolo paesino si popolava di villeggianti e la strada si riempiva di bambini e lui se ne restava là, sempre in silenzio, a guardarli correre e giocare.
Ah, quello era davvero il suo diletto preferito!
E se non fosse stato un tipo così riservato qualche volta avrebbe anche voluto dire qualche parola a quei bimbetti scatenati che gli passavano davanti ogni giorno.
E che emozione vederli crescere e diventare grandi, alcuni di loro li conosceva ormai bene.
E poi il caldo finiva e molti di quei piccini ritornavano in città, lentamente avanzava l’autunno, cadevano le foglie, l’aria si faceva più frizzante e fresca, le giornate divenivano ogni giorno più corte.
E come sempre tutto mutava, così è l’avvicendarsi delle stagioni.
Accadde poi un fatto in un giorno di dicembre: c’era un bel cielo azzurro e terso, il sole brillava e l’albero se ne stava tranquillo a godersi quel piacevole tepore.
Passarono in quell’istante alcuni visitatori venuti da lontano, l’albero non li conosceva, non li aveva mai visti prima ma sentì chiaramente che parlavano di lui e udì una voce femminile esclamare:
– Ma guarda che sterpi, che rami spogli!
L’albero paziente non se ne curò, non se la prese e come sempre non disse nulla, attese che tutti se ne andassero.
Non gli importava niente di quello che dicevano di lui: in cuor suo sapeva molto bene che la neve sarebbe caduta e poi sarebbe tornata la primavera e infine sarebbe rifiorita la calda estate.
E i suoi rami si sarebbero di nuovo ricoperti di gemme e di foglioline verdi, i bambini con le loro biciclette e le loro risate sarebbero ritornati e una nuova felicità sarebbe sbocciata ancora.
E lui era un albero paziente e sapeva aspettare.

Le avventure di una forchettina

C’era una volta una forchettina d’argento che si annoiava.
Negli anni della sua giovinezza aveva avuto anche lei i suoi momenti di gloria, ancora ricordava con emozione quel giorno lontano in cui era stata donata come regalo di battesimo.
– Oh, che bella questa forchettina! – dicevano tutti – veramente deliziosa e raffinata!
E lei, tutta fiera di se stessa, si beava di quei graditi complimenti.
Erano passati molti anni da quel giorno e da allora la piccola ambiziosetta era andata a vivere su un tavolino di legno e sapete come vanno le cose del mondo?
Non è semplice andar d’accordo con tutti, in particolar modo se il tuo mondo è un tavolino!
E infatti la forchettina bisticciava di continuo con il coltello, lui era un tipo dalle battute taglienti e la prendeva sempre in giro.
A sedare gli animi ci pensava il cucchiaino che era piuttosto accomodante, il cucchiaino da zucchero era capace di addolcire anche i caratteri più difficili.
La forchettina però era in qualche modo inconsolabile: si sentiva trascurata e dimenticata.
La padrona di casa le passava accanto senza degnarla di uno sguardo, per non dire poi degli altri abitanti del tavolino, erano tutti dei tipi particolari.
Il ditale non la salutava nemmeno, il colino da tè era irrimediabilmente timido e non osava spiccicare parola, il portasigarette sapeva solo il francese e la lattiera era un’anima semplice e riservata.
Sospirava annoiata la forchettina ma un bel giorno si sentì afferrare all’improvviso da piccole mani bambine.
– Che succede? Aiutatemi! – Strillò la forchettina ma purtroppo nessuno la sentì.
La bimba che la stringeva tra le mani la rimirò bene e poi, non sapendo cosa farsene, la posò con distrazione tra i rami dell’albero di Natale.

– E ora cosa ci faccio qui? – Borbottò la forchettina.
Quell’albero era davvero un altro mondo: era un luccicchio di oro sfavillante, la forchettina ne era ammaliata.
Ogni sera poi le luci si accendevano e diffondevano un caldo chiarore tra i rami fitti, era veramente meraviglioso!
E per un certo periodo la forchettina fu persino felice di quella sua nuova sistemazione ma a lungo andare iniziò a provare una certa nostalgia: voleva tornare là, sul tavolino.
E si sorprese nel sentire la padrona di casa che la cercava:
– Ma quella forchettina d’argento dove è finita? È sempre stata qui, qualcuno di voi l’ha spostata?
La piccola posata smarrita intanto si sgolava invano e cercava di attirare l’attenzione.
Pensò anche di chiedere consiglio al cavallino ma lui non fece altro che dondolarsi avanti e indietro, nella più totale incertezza.

Intanto, sul tavolino, si diffuse la notizia della sparizione della forchettina.
La lattiera, materna e affabile, era in apprensione, persino il coltellino finì per ammettere che sentiva la mancanza della sua amica, la campanella tintinnava tra i singhiozzi tutta scossa per l’accaduto.
Nel frattempo la forchettina cercò di darsi da fare e pensò di chiedere aiuto al pavone ma quello si voltò dall’altra parte, fece la ruota e non si degnò di risponderle.

Non andò meglio con il trenino che pure si dichiarò disponibile a nuove esperienze e ad una momentanea trasferta sul tavolino.
Tentò la partenza per più di una volta ma non ci fu niente da fare, era impigliato al ramo dell’albero e non riuscì a liberarsi.

Il destino della forchettina pareva segnato ma il giorno della vigilia di Natale la padrona di casa vide tra gli aghi dell’abete la piccola posata e con pronta decisione l’afferrò esclamando:
– Ecco dove era finita! Ora la rimetto al suo posto!
E di nuovo la sistemò sul tavolino dove sempre era stata e dovevate vedere che feste le fecero tutti per il suo ritorno!
Persino il ditale salutò la forchettina, il portasigarette farfugliò qualcosa in francese e il coltellino se ne uscì fuori con una delle sue solite battute.
La forchettina era felice come non mai, ne aveva di cose da raccontare ai suoi amici ma la sua gioia più grande era proprio essere tornata là, dove tutti la conoscevano e dove sempre aveva vissuto.
E sapete come vanno le cose del mondo?
Alla fin fine, soprattutto a Natale, nessun posto è come la propria casa, anche se questa per taluni è soltanto un tavolino!

Una bellezza leggendaria

Era vanitosa e ingenuamente vanesia, ormai quelli che le stavano intorno non ci facevano quasi più caso.
Quando iniziava con la faccenda della parentela importante tutti si defilavano e cercavano di far cadere l’argomento.
Buoni a nulla e gente da poco, ecco cosa siete! – diceva lei – Voi non siete affatto in grado di mettervi a discutere con una come me, ve li sognate i miei quarti di nobiltà!
E attaccava con la solita solfa della lontana parente francese, una cugina di suo padre che faceva parte del bel mondo e dell’alta società.
La cugina francese era sofisticata, di gran classe e molto ammirata, era un’autentica celebrità, inimitabile per stile ed eleganza.
E poi, in certi periodi dell’anno, la sua incomparabile allure veniva ancor più esaltata.
Nessuna era come lei: raffinata, affascinante e misteriosa, una protagonista del jet set.
La sua parente, diceva lei, era una bellezza leggendaria.
Ma vedete? – Concludeva sempre così i suoi lunghi discorsi – a me sembra proprio di non aver nulla da invidiarle. Del resto il sangue non è acqua e noi due ci assomigliamo come due gocce d’acqua, non sembra anche a voi?
E tutti attorno a lei annuivano e le davano ragione e dicevano che sì, erano davvero identiche, era l’unica maniera per farla smettere di cianciare!
E allora lei sorrideva soddisfatta, gongolandosi in quella sua puerile vanità di credersi uguale alla Tour Eiffel.

L’ultimo giorno dell’anno

Era l’ultimo dell’anno.
Erano trascorsi i giorni, erano scivolati via uno dopo l’altro.
Se si guardava indietro gli veniva da pensare che il tempo fosse come svanito, era da non credere, un intero anno era trascorso.
Eppure ricordava bene ogni istante, era stato immobile a guardare i mesi che passavano.
Gennaio di tempesta, febbraio fresco come le mimose in fiore e marzo frizzante annunciato dal canto delle allodole.
Ad aprile poi era giunta una pioggerellina leggera e lui era rimasto alla finestra ad osservare la danza delle gocce.
Maggio aveva avuto il profumo delle rose, giugno era stata un’esplosione di colori ed aromi.
Luglio caldo come il fieno baciato dal sole, agosto dolce come i frutti rossi dei boschi, settembre languido come le foglie cadute.
Ottobre era stato incerto, esitante e capriccioso.
Novembre aveva portato turbini di vento e poi, poi era giunto dicembre.
Di ghiaccio, di neve, d’inverno.
Uno dopo l’altro, erano trascorsi i giorni e infine era giunto il suo momento.
Si guardò indietro.
Sapeva bene che dopo di lui sarebbe venuta una tenera bimbetta e volle lasciare un saluto per lei e per tutti gli altri.
Scrisse qualche parola e poi posò il biglietto sul tavolo.
Tutti si sarebbero ricordati di lui: era l’ultimo giorno dell’anno.

Buon anno

Cartolina appartenente alla Collezione di Eugenio Terzo

Tanti auguri a tutti voi da Miss Fletcher! Buon 2016!

La vera bellezza

Lo era sempre stata, era lei la più bella.
E ancora adesso che era un po’ avanti negli anni tra tutte si distingueva.
Era lei ad elargire saggi consigli a certe giovani che non sapevano nulla delle cose del mondo e loro stavano a sentirla assorte con devota ammirazione.
Il fascino, diceva lei, è una dote connaturata, una malia capace di stregare i cuori e gli animi.
Cosa potevano saperne le margherite!
Così semplici e inesperte, quando lei parlava bisbigliavano tra loro:
– Ma la vedi? – diceva la prima – Che stile! Io per quanto mi impegni non ce la farò mai ad essere come lei!
– E neppure io! – le faceva eco la sua vicina con tono sconsolato.
– Ssst, fate silenzio! Voglio sentire cosa dice! – le redarguiva una loro simile.
Le margheritine allora ammutolivano e zitte zitte cercavano di carpire i segreti della più bella del giardino.

Margherite

Io, per quanto mi riguarda – diceva il botton d’oro – ho già un abito piuttosto elegante e quindi sono a metà dell’opera!
E poi sono ancora così giovane!

Botton d'oro

Lei sorrideva, bonaria e gentile.
Fatale e suadente esclamava una delle sue frasi preferite:
No woman should ever be quite accurate about her age. It looks so calculating.
– Eeh? – facevano in coro tutti i fiori del giardino.
– Bambine care – continuava lei – si impara a vivere anche da certi libri, imprimetevela bene nella mente questa frase di Oscar Wilde: nessuna donna dovrebbe essere troppo precisa riguardo alla sua età. Le dà un’aria così calcolatrice.
E dai vasi tutte si sporgevano per ascoltarla, ogni sua parola era per loro sacra.

Fiori

Una vita intera da narrare.
Avventure e amori, batticuori e sensazioni mai dimenticate, lei, così ammirata e ambita, parlava con tono pacato e sereno.
Era ancora lei, il tempo era trascorso inesorabile ma grazia e leggiadria non l’avevano abbandonata, lei sapeva ancora indossarle con fiera consapevolezza.
Era ancora lei a spiccare su tutte le altre, certa bellezza resta e non svanisce, certa bellezza non appassisce mai.

Rosa

La tortora e il gallo

C’era una volta una piccola tortora.
Era ciarliera, socievole e amava la vita mondana, era sempre piena di impegni e la si vedeva sovente volare da un albero all’altro.
Era elegante, leziosa e anche un po’ snob, non si lasciava mai sfuggire l’occasione di intrattenersi in raffinate conversazioni in francese, il suo accento era perfetto!
Certo, non era il tipo da dar confidenza a chiunque e sceglieva le sue frequentazioni con molta cura ma si sa, il mondo è piccolo, figuriamoci poi se abiti in un giardino!
E lei era una signorina perbene così salutava tutti con affettata educazione.

Tortora (4)

La vita non era tutta rose e fiori per la nostra tortorella, accanto a lei abitavano certi rumorosi personaggi proprio privi di stile!
E che insistenza!
Non facevano che chiederle di andare da loro per la merenda o per far due chiacchiere.
Uh, con quelle voci gracchianti, ogni volta la piccola tortora si trovava costretta a imbastire un castello di scuse per giustificare la sua assenza.
E quelli, per parte loro, non facevano una piega e il giorno successivo tornavano all’attacco, teste dure!

Pappagalli (2)

Lei, la nostra signorina, declinava ogni invito con suprema eleganza e volava via, leggera come una piuma.
Un bel giorno accadde un fatto strano: nel giardino giunse un nuovo ospite, un maestoso gallo.
– Un gallo? Una rarità, non ne ho mai incontrato uno! – pensò la tortora – andiamo un po’ a vedere che tipo è!
Si avvicinò con circospezione e cercò di farsi notare ma lui non la degnò neanche di uno sguardo.
E come era possibile una cosa del genere?
Lei sempre così ambita questa volta veniva ignorata!
La tortora non sapeva darsi pace, per giorni tentò di attirare l’attenzione di quell’altero pennuto ma non ci fu nulla da fare.
Era veramente sconsolata, lo guardava da lontano domandandosi in cosa avesse sbagliato.

Tortora (2)

I suoi vicini nel vederla così abbattuta cercarono di rincuorarla.
Certo, i modi erano un po’ maldestri, tuttavia c’è da dire che quei pappagalli erano animati dalle migliori intenzioni!

Pappagalli

Lei però non ne voleva sapere, girava le spalle e faceva finta di non sentire.

Tortora (5)

Voleva soltanto capire perché quell’altezzoso gallo la scansava.
E oltretutto, a guardarlo bene, non è che fosse questo granché, cosa mai aveva contro di lei?
Era veramente un mistero inesplicabile!
Lei però era una tortorella caparbia e non si arrendeva tanto facilmente, così durante il giorno se ne andava a zonzo a svolazzare e poi, verso sera, si accoccolava vicino al gallo e gli raccontava le sue avventure.
Parlava sempre lei, lui restava immobile senza interloquire, non aveva alcuna reazione né di stizza né di apprezzamento, certo sembrava ascoltarla ma neanche di questo la tortora era poi così sicura.
E lei , affranta, finì persino per perdere l’appetito!

Tortora (3)

Il destino a volte ti regala nuove possibilità e così accadde anche alla nostra piccola eroina.
Era un giorno di maggio, c’era un bel sole chiaro e l’aria era fresca e pulita.
Si incontrarono là, sotto ai rami generosi di fronde.
E da quel giorno non smisero mai di volare insieme, in quel giardino tutti erano d’accordo, quei due sembravano fatti l’uno per l’altra.

Tortora

E provate a indovinare chi rallegrò la loro festa di nozze?
Quei pappagalli caciaroni la resero allegra e indimenticabile, nel giardino se ne parlò per giorni!
Quell’unione fu duratura e gioiosa, i due innamorati vissero insieme per lungo tempo felici e contenti.
E il gallo?
La tortora  non ci pensò più anche se a volte l’immagine di lui tornava ad affacciarsi alla sua mente.
E lei si rivedeva là vicino al gallo e solo per un istante tornava a porsi certe antiche domande.
Non comprese mai perché lui non l’avesse degnata neanche una sola volta di uno guardo.

Tortora (6)

Sottocoperta

Ho una valigia di cuoio, sottocoperta.
Contiene un giaccone di lana scura, il mio taccuino, la bussola, una scatola di matite, un coltello e l’orologio da tasca.
Nel mio bagaglio c’è spazio per tutto ciò che potrei trovare durante il mio viaggio.
Eppure lo so bene, ciò che è raro, bello e indescrivibile non può stare nella mia valigia.
Gli aromi delle spezie di oriente, le sfumature d’ambra e d’alabastro, il fruscio di una seta leggera.
E la nostalgia, quando osservo la terra che si allontana.
E la musica, le note languide di un pianoforte o la malinconia di un violino.
I sorrisi, i giorni, il tepore della primavera, il suono di una voce.
E osservare i delfini che guizzano fuori dalle onde, seguire con gli occhi un legno alla deriva tentando di indovinare il suo destino e cercare il profilo dei coralli sul fondo del mare.
E la libertà.
Comunque ho spazio, nella mia valigia, sottocoperta.
Resto qui sul ponte, al posto di comando.
E conosco bene la mia direzione.
– Capitano, la nostra rotta?
– Noi seguiamo il sole, sempre.

Camogli

Camogli – Dicembre 2014