Le meraviglie di Palazzo del Melograno

Oggi torniamo nei caruggi, in quel palazzo che ospita un melograno che si affaccia su Campetto.
Questa è stata una dimora nobiliare, realizzata per volere di Ottavio Sauli e poi passata ad altri proprietari come già ebbi modo di scrivere nell’articolo dedicato all’albero dai frutti rossi e alle sue leggende.

Palazzo del Melograno (3)

E come tutti i genovesi sanno, questo edificio ospita un grande magazzino, al suo interno ancora si può ammirare il fasto e la grandezza dei secoli passati.

Palazzo del Melograno (2)

Al piano terra la vostra attenzione verrà suscitata da una statua di pregio, la figura che sovrasta la fontana rappresenta Ercole ed è stata scolpita da Filippo Parodi, artista vissuto nella seconda metà del ‘600.

Palazzo del Melograno (3)

Accanto all’opera un cartello spiega che questa è una delle celebri fatiche del figlio di Giove effigiato dopo aver abbattuto la mostruosa Idra di Lerna.

Palazzo del Melograno (4)

Ercole vittorioso la tiene sotto ai suoi piedi.

Palazzo del Melograno (5)

E poi , facendo appello alle mie memorie risalenti all’epoca di liceo classico, ho osservato meglio e ho notato altri dettagli: il temibile Ercole tiene sulla spalla la pelle di un leone, se ne riconoscono le fauci spalancate prive dell’afflato della vita.
E questo dovrebbe essere il leone di Nemea.

Palazzo del Melograno (6)

E poi ancora, guardando la mano che egli protende verso l’alto, si nota che non è vuota: tra le dita vigorose di Ercole ci sono i pomi delle Esperidi, a queste ninfe aggraziate dedicai un articolo tempo fa, la mitologia ha per me un fascino imperituro.

Palazzo del Melograno (7)

Chissà, forse il possente Ercole cela altre sorprese che ancora non ho notato.

Palazzo del Melograno (8)

Un palazzo nobiliare, come è giusto che sia, ha un ampio scalone che conduce al piano superiore.

Palazzo del Melograno (9)

Eh, io ho pensato a certe dame che un tempo posarono le loro candide dita su questa balaustra, chissà se si aggirano non viste nel grande magazzino, mi sono domandata cosa ne pensino della nostra moda, dico davvero!

Palazzo del Melograno (9a)

E anche al primo piano non mancano gli stupori.
Alzate gli occhi verso i soffitti settecenteschi, sono stati restaurati e si mostrano nel loro originario splendore.

Palazzo del Melograno (11)

Palazzo del Melograno (12)

Ci sono stucchi che paiono trine preziose e delicate.

Palazzo del Melograno (13)

Colori candidi e polverosi.

Palazzo del Melograno (14)

Tinte pastello e decori armoniosi.

Palazzo del Melograno (15)

Alzate gli occhi, a Genova, ovunque voi siate.

Palazzo del Melograno (16)

Palazzo del Melograno (17)

E poi guardate giù, verso l’immagine dell’eroe.

Palazzo del Melograno (18)

E ancora, sopra di voi ci sono sorprendenti geometrie.

Palazzo del Melograno (19)

E certo, si dirà che è anomalo che tutto questo sia lo scenario di un grande magazzino.
Riflettendoci, tuttavia, ho fatto un pensiero che desidero condividere con voi lettori: in ogni caso, tutto questo patrimonio di bellezza è perfettamente conservato e restaurato, quanto meno questo palazzo è curato e difeso dalle ingiurie del tempo.
Eh lo so, Ottavio Sauli e i suoi successori saranno perplessi ma io trovo giusto che certi edifici siano accessibile a tutti, in questo caso è proprio così.

Palazzo del Melograno (10)

Cosi quando passate da quelle parti fate caso ai dettagli, c’è anche un piccolo altare che naturalmente è protetto da un vetro, difficile fotografarlo integralmente, io ho fatto questa foto avvalendomi di uno specchio.

Palazzo del Melograno (20)

Qui, in questa antica dimora, c’è una splendida Madonnetta, chiara e leggiadra, avrà udito spesso le preghiere dei padroni di casa.

Palazzo del Melograno (21)

È una delle meraviglie di un palazzo dei caruggi che prende il nome da un albero di melograno, nel luogo dove certi soffitti hanno il colore del cielo di primavera.

Palazzo del Melograno (22)

Eco e Narciso, le voci dell’amore

Esistono tante forme di amore, questo è l’amore di una ninfa, quae nec reticere loquenti, colei che non sa tacere davanti a chi parla, così scrive di lei Ovidio nelle sue Metamorfosi.
E lei, la Ninfa Eco, portava in dote un’esemplare caratteristica, Eco poteva solo ripetere le ultime parole pronunciate da altri.
Questa punizione le era stata inflitta da Giunone, adirata con lei perché una volta Eco l’aveva distratta con le sue chiacchiere impedendole così di sorprendere Giove che si intratteneva in incontri amorosi con altre ninfe.
E così la dea punì Eco, togliendole la parola in questa maniera e lei non poté mai più parlare a suo piacimento.
Esistono tante forme d’amore, a volte l’amore si accende in un solo istante e questo accadde a Eco quando davanti a sé vide Narciso.
Lo guardava senza potergli parlare, nutriva il desiderio che lui si avvicinasse a lei.
E un giorno Eco udì Narciso pronunciare queste parole:
– C’è qualcuno?
Ed Eco a sua volta disse:
– Qualcuno.
E Narciso parlò ancora ed Eco ripeté le sue parole e quando lui le disse di mostrarsi a lei venne naturale protendersi verso di lui, verso l’abbraccio che aveva tanto desiderato.
Esistono tante forme d’amore, l’amore di Eco non era ricambiato.
E così la ninfa respinta fuggì, si nascose in certe caverne, lasciandosi consumare dal suo dolore.
E a poco poco svanì la sua pelle sottile, i capelli si fecero aria, tutto di lei si perse, si narra che le sue ossa divennero pietra e di lei rimase solo voce, Eco nascosta tra le montagne restituisce i suoni e le parole, quella che rimbomba tra le valli è la voce di lei, la ninfa Eco.

Nuvole

Non fu solo Eco ad essere rifiutata da Narciso, altre ninfe subirono la stessa sorte e un giorno Nemesi, la dea della vendetta, ascoltò le preghiere di qualcuno che invocava per Narciso un destino crudele: amare senza poter mai possedere il suo amore.
Esistono tante forme di amore, Narciso un giorno incontrò il suo.
Si trovava in un bosco, presso una fonte dall’acqua pura e limpida, si chinò per bere e vide colui che sapeva suscitare il suo amore: riflessa nell’acqua c’era la sua stessa immagine.
Dapprima non comprese, si fece prendere dalla concitazione, cercò di afferrare quella figura evanescente, cerco di prenderla tra le sue braccia.
L’amato sfuggiva e poi d’un tratto Narciso capì: era suo quel viso, suoi quegli occhi, sue quelle labbra, non avrebbe mai potuto avere per sé l’oggetto del suo amore.
E mentre si specchiava nella fonte il pianto sgorgò dai suoi occhi, le lacrime caddero rendendo tremula la superficie dell’acqua, l’immagine desiderata si dissolse.

Acqua Pescia
E poi l’acqua si calmò e quel volto riapparve ma l’amore che Narciso provava era così intenso da annientarlo, la sua vita, ogni sua fibra, tutto di lui arse, corroso da un invisibile fuoco, scrive Ovidio.
Levò un addolorato lamento, in un gemito di dolore disse:
– Ahimé.
E lo udì Eco, anche lei ripeté ciò che lui diceva, l’amore a volte ha un suono che ritorna ancora e ancora.
Ahimé, mio ragazzo amato inutilmente! – sussurrò Narciso e così fece Eco dopo di lui.
Esistono tante forme d’amore, a volte le parole degli altri sono le nostre.
Morì così Narciso e quando giunse negli Inferi ancora cercò di specchiarsi nello Stige.
Le Driadi e le Naiadi cercarono il corpo di lui ma non poterono trovarlo, non c’era più.
Al suo posto, nella terra dove l’amore aveva spezzato il suo respiro era nato un fiore, il fiore che porta il suo nome.

Narciso

Il Giardino delle Esperidi

C’era un tempo uno splendido giardino che apparteneva alla dea Era, lì cresceva un albero dalle mele d’oro che la dea aveva ricevuto come regalo dalla Madre Terra per il suo sposalizio con Zeus.
E siccome il suo albero era davvero prezioso Era aveva scelto le ninfe Esperidi come custodi, loro avrebbero dovuto vigilare sui pomi dorati del suo giardino.
Le mele d’oro!

Mele (2)
Le ninfe leggiadre non seppero resistere a tanto scintillio e un giorno Era le vide spiccare i frutti dai rami.
La dea allora inviò nel giardino il drago Ladone che si avvinse al tronco del melo come Era gli aveva ordinato.
Del giardino di Era si curava il titano Atlante, colui che in seguito verrà condannato da Zeus a reggere il peso della volta celeste sulle sue spalle.
Atlante aveva grande attenzione per l’albero dai pomi dorati, un giorno gli venne predetto che un figlio di Zeus avrebbe rubato le mele d’oro e così Atlante, preoccupato, cintò il giardino con un invalicabile muro per poter difendere il melo sacro di Era e scacciò tutti i forestieri.
Non bastò, un figlio di Zeus giunse davvero!
Si trattava dell’invincibile Eracle, tra le epiche fatiche ordinategli da Euristeo c’era anche questa: doveva conquistare i pomi del giardino delle Esperidi.
Ma come giungere in quel luogo fatato?
Eracle si mise in cammino, attraversò i fiumi e le terre, affrontò diverse peripezie e infine incontrò Nereo, il re del Mare, che gli svelò l’arcano.
E così Eracle giunse nel giardino delle Esperidi e nelle sua testa risuonavano le parole che gli aveva detto Nereo:
– Non cogliere le mele! Falle cogliere ad Atlante!

Mele (3)
Ed Eracle, giocando d’astuzia, seguì quel consiglio.
Si trovò davanti ad Atlante che reggeva sulle sue spalle la volta celeste, si avvicinò e fece la sua proposta: Eracle avrebbe preso su di sé il peso della cielo se in cambio Atlante avesse raccolto per lui le mele del giardino.
Il titano, spossato dall’immensa fatica del suo compito, non vedeva l’ora di sentirsi libero ma era terrorizzato dal minaccioso drago Ladone.
Eh, Atlante!
Davvero non conosceva il coraggio di Eracle e questi glielo dimostrò: dal suo arco lanciò una freccia che colpi a morte Ladone, quindi prese sulle sue spalle la volta celeste e liberò Atlante.
Costui, rispettando i patti, andò a cogliere le tre mele che Eracle gli aveva chiesto, poi tornò da lui e propose un’alternativa: che ne pensava Eracle di reggere il cielo per altri tre mesi?
Avrebbe provveduto Altlante stesso a portare le mele ad Euristeo!
Il povero Atlante non aveva tenuto in considerazione la furbizia di Eracle, ancora non aveva compreso di che fibra fosse il figlio di Zeus, era difficile ingannare uno come lui.
E infatti Eracle disse che avrebbe accettato quella proposta, ma prima voleva fasciarsi la testa, così chiese ad Atlante di riprendere il cielo sulle sue spalle per qualche istante, giusto il tempo di sistemarsi come desiderava.
E così Atlante posò a terra le mele e sulle sue spalle tornò il peso che aveva retto per così lungo tempo.
E lì era destinato a rimanere perché l’astuto Eracle prese le mele tra le mani e fuggi via.
Eracle consegnò i pomi dorati ad Euristeo ma questi glieli restituì e così Eracle diede le mele alla dea Atena che le riportò nel giardino dal quale erano state colte.
Nel mito ognuno trova il proprio posto: il drago Ladone, compianto da Era, fu da lei trasformato nella costellazione del Serpente.
Le Esperidi compirono anch’esse una metamorfosi, secondo una versione del mito dopo l’arrivo degli Argonauti furono mutate in olmo, pioppo e salice.
Erano state custodi di un giardino dove fruttificava un albero dalle mele d’oro.
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Mele

Alfeo e Aretusa, quando l’amore sfugge

C’era un tempo una ninfa che viveva nella lontana Acaia, era una creatura dalla bellezza florida e formosa, il suo nome era Aretusa e questa è la sua vicenda, così come la narra Ovidio.
Era timida Aretusa, se le venivano rivolte parole lusinghiere in elogio alla sua grazia un rossore le imporporava il viso.
L’amore e il desiderio a volte giungono pur non essendo ricambiati e così accadde alla ninfa ritrosa.
Un giorno si trovò in una vasta foresta, il caldo era opprimente e soffocante, scorreva poco lontano un corso d’acqua, limpido, terso e chiaro, trasparente come cristallo.
Uno, due, tre, cinque, dieci, si poteva contare ogni sassolino.
Aretusa si avvicinò all’acqua, immerse il piede e poi si bagnò le gambe.

Sassi

E quindi tolse i suoi veli e li ripose sui rami di un salice e si lasciò andare all’abbraccio dell’acqua.
Incauta Aretusa, non sapeva cosa la attendesse!
E tra i gorghi e i flutti, mentre la ninfa era immersa nell’acqua, la raggiunse una voce, la voce del fiume Alfeo.
Aretusa spaventata si avvicinò alla riva mentre Alfeo continuava a chiamarla.

Quo properas, Arethusa?
Perché ti affretti, Aretusa?

L’amore e la passione a volte giungono improvvisi come un’onda che si abbatte potente.
E Alfeo brucia di desiderio, Alfeo diviene uomo e insegue colei che accende il suo desiderio.
E fugge Aretusa, senza i suoi veli, fugge da colui che la insegue senza posa.
Il fascino immortale del mito è anche nelle sue metafore, Ovidio paragona la ninfa impaurita alle innocenti colombe e Alfeo ad uno sparviero.
Scappa, corre a perdifiato Aretusa, attraversa terre e paesi, supera boschi, rupi e pianure.
E’ stanca, spossata, senza più forze né fiato, è atterrita, sente i passi di lui e il suo respiro che incombe.
Chi può soccorrere la ninfa preda dell’amore di Alfeo?
Chi la metterà in salvo?
L’Olimpo ha i suoi dei pronti a intervenire laddove sia necessaria la loro potenza.
Diana, alla quale Aretusa aveva portato tante volte gli archi e la faretra, scossa dal pianto e dalle suppliche che la ninfa le rivolgeva inviò su di lei una nube nera che la avvolse.
Aretusa si confuse in quell’oscurità e  Alfeo la cercò, rimase accanto alla nube,  chiamò a gran voce la ninfa, la invocò ardente di passione.
E Aretusa si trasformò, dai sui capelli caddero gocce, scivolando sulle sue palpebre, sulle sue ciglia, sulle sue dita finché lei divenne acqua pura.
E Alfeo che si era fatto uomo per possederla ritornò fiume per unire le sue acque a quelle di Aretusa.
E allora Diana spaccò il suolo e Aretusa fuggì via, addentrandosi nelle viscere della terra per poi riemergere come fonte ad Ortigia, nei pressi di Siracusa.
E Alfeo che l’aveva amata e desiderata non si arrese, mutò il suo corso e andò a sfociare laggiù dove zampillava l’acqua fresca di lei, la ninfa Aretusa che divenne fonte.

Villa Durazzo e il giardino degli dei

Si affaccia sul golfo di Santa Margherita Ligure la bella villa che appartenne alla famiglia Durazzo dalla quale prende in nome.
Ed era una giornata d’ottobre, con il cielo appena velato dalle nuvole.
E in quel giorno sono entrata nel giardino degli dei.

Santa Margherita Ligure
Gli dei sono silenziosi, tengono nascosti i loro misteri.
Nel giardino degli dei sbocciano le rose.

Villa Durazzo

E tra gli alberi si celano certe creature magiche che conoscono le parole delle foglie, dei fiori e dei venti.
Sono le ninfe, le ninfe dal passo leggero, calpestano il suolo con un movimento lieve, un suono quasi impercettibile.
Gli dei sono i signori di questo giardino.

Villa Durazzo (2)

Forse le ninfe soffiano sui boccioli chiusi delle rose e il loro respiro fa dischiudere i petali nel giardino degli dei?

Villa Durazzo  (3)

E nel loro giardino gli dei dominano l’infinito.
E sotto di loro hanno il mare immenso e attorno alberi e verde e vialetti ombrosi.
E nulla può disturbare la loro pace, nulla può infrangere questo silenzio.

Villa Durazzo (5)

E’ possente Apollo, figlio di Giove.
Colui che guida il carro del Sole e dona la luce è fulgore, bellezza e lucente perfezione.
E potenza e forza, fierezza e splendore.

Apollo

L’amore, nel giardino degli dei, è fuga disperata e desiderio che brucia.
E non si può resistere ai fatali dardi di Cupido, il figlio di Venere è dispettoso e li scocca dal suo arco senza alcuna pietà.
Alcune frecce infiammano i cuori, altre invece li gelano e così Apollo ama non riamato la ninfa Dafne.
E lei lo respinge, scappa via da lui, corre a perdifiato e cerca di sfuggire al suo abbraccio.

Dafne (2)

Ma Apollo non si arrende, c’è solo una via per preservarsi dall’amore di lui e il padre di Dafne trasformerà la figlia in odoroso lauro, pianta che sarà prescelta dal dio del Sole.

Dafne

Il giardino degli dei circonda questa splendida dimora.

Villa Durazzo  (6)

E profumano i dolci fiori smossi dal vento.

Villa Durazzo  (4)

Davanti al mare una delle Muse tiene in serbo la sua sapienza.

Musa

La natura fiorisce rigogliosa e ricca in questo giardino dove una divinità dei boschi alimenta l’acqua della bella fontana.

Villa Durazzo (6)

E un’altra figlia di Giove, Pallade dea della saggezza, veglia sugli ombrosi viali nei quali si trova frescura e ristoro.

Pallade

La vita è sogno in quei luoghi che permettono di credere di trovarsi tra la fiaba e il mito, tra il reale e l’immaginario.
Chi visse qui ogni mattina si risvegliava su questo sogno.

Villa Durazzo  (5)

E sogno anch’io, cammino piano per non disturbare le ninfe.

Villa Durazzo (8)

Chissà, qui forse qualcuno si sarà scambiato promesse di amore eterno.

Villa Durazzo (11)

Scendono le foglie madide di rugiada.

Villa Durazzo  (8)

E i petali si spalancano a salutare la luce.

Villa Durazzo - Copia

Qui dove tutto è fiorente armonia, cura e perfezione.

Villa Durazzo  (10)

E si cammina nella splendida quiete e non si è mai soli nel giardino degli dei.

Villa Durazzo (3)

E la natura regna e vince.

Villa Durazzo (4)

Trionfa tra i viali e sui prati verdi nel mistero bello dell’universo, dove si può sognare e immaginare che sia stata una ninfa con il suo soffio a far sbocciare una rosa rossa.

Villa Durazzo (7)

Aracne, la fanciulla che sfidò una dea

Questa è la storia di una fanciulla che osò sfidare una dea.
Rispolverate le vostre memorie di scuola e vi tornerà alla mente un termine greco, ὕβρις, che letteralmente significa superbia, tracotanza.
Cosa accade se gli umani osano mettersi sullo stesso piano degli dei dell’Olimpo?
Questa è la storia di una fanciulla che non ebbe timore e pagò per il suo orgoglio.
Aracne abitava ad Ipepi, una piccola località della Lidia, ed era una così abile tessitrice che la sua fama aveva raggiunto le terre più lontane.
Persino le Ninfe abbandonavano i vigneti e i corsi d’acqua per andare ad assistere al mirabile lavoro di Aracne.
Oh, non solo le tele già terminate!
Era uno spettacolo anche vederla all’opera, seguendo con lo sguardo le sue dita che muovevano il fuso e la lana con grazia ed abilità.
Scrive Ovidio:
Scires a Pallade doctam, l’avreste detta istruita da Pallade.
Eccola la pietra di paragone, Pallade, la dea della sapienza.
Ah, che mi sfidi! – disse Aracne.
Potete immaginare che la dea non se lo fece dire due volte, ma pensò di presentarsi alla fanciulla sotto mentite spoglie, prendendo le sembianze di una vecchia.
Le disse di essere modesta, tibi fama petatur inter mortales, ricerca la fama tra i mortali, ma paragonarsi a una dea è inaccettabile, agli dei si devono tributare onore e rispetto.
Che la fanciulla chieda perdono a Pallade, la dea certo sarà magnanima.
Aracne, per nulla intimorita, disse che restava della sua opinione, anzi rilanciò e chiese:
– E perché mai Pallade non accetta la sfida?
In quell’istante la dea riprese le sue sembianze.
E Aracne?
Finalmente aveva un’occasione per dar prova della sua abilità!
E così entrambe si misero a tessere.
Il pettine, le spolette, i fili dai mille colori.
Dalle mani di Pallade scaturirono le figure degli dei dell’Olimpo, a esaltazione della loro grandezza e della loro gloria.
Ecco Giove con la sua maestà, con attorno dodici dei.
E poi se stessa, con lo scudo, l’elmo e l’egida.
E affinché la sua sfidante capisse quanto sapessero essere vendicativi gli dei dell’Olimpo, ai quattro angoli la dea ritrasse vicende di uomini che avevano contrastato i numi e per punizione erano stati destinati ad avere altre sembianze.
Il prezioso manufatto di Pallade era orlato di rami d’ulivo, simbolo della pace.
Aracne, invece, imbastì una splendida tela sulla quale erano effigiati gli amori degli dei.
E invece di esaltare le virtù dei numi, Aracne mise in evidenza i mezzi ai quali gli dei ricorrevano per ingannare gli uomini.
Ecco le mille fattezze assunte da Giove per sedurre le donne che desiderava: Giove diviene pioggia per possedere Danae, cigno per avere Leda, toro per amare Europa.
E poi ancora altri inganni, quelli di Apollo, Bacco e Saturno.
Così accade, gli dei non sono sinceri con gli uomini e la tela di Aracne schernisce l’Olimpo e i suoi abitanti.
L’opera di Aracne, però, era splendida e magnificente e Pallade, vinta dall’ira, distrusse la tela.
Poi, con la spola colpì Aracne sulla fronte e la fanciulla, per la disperazione, si mise un laccio intorno al collo e si impiccò.
Pallade la soccorse e le concesse di vivere, ma per lei aveva in serbo una sorte crudele.

Vive quidem, pende tamen, improba.
Vivi quindi, ma resta appesa, sfrontata.

 Cosparse il suo corpo con un’erba e lentamente la fanciulla mutò aspetto, punita per sempre per la sua tracotanza, destinata a tessere incessantemente tele sottili e finissime,  Aracne, la fanciulla che venne trasformata in ragno da una dea.

Immagine di Susanna,
bravissima fotografa e mia insostituibile amica

Una mattina, l’arcobaleno

Una mattina, a Genova.
E il cielo dapprima è cupo, carico del grigio dell’autunno, saturo di nuvole che annunciano la pioggia.
Una mattina, a Genova, e il cielo a poco si rasserena e improvvisamente brilla la luce.
E splendono i colori dell’arcobaleno sulla superficie nel mare.

Un arco perfetto, dai colori vividi e rilucenti.
Evanescente, effimero, lieve, come spesso sono le cose meravigliosamente belle.

Fugace sì, così è l’arcobaleno, eppure l’altra mattina è durato più del previsto, nell’aria frizzantina di ottobre.
Ad un estremo toccava il mare, dall’altro andava a nascondersi tra le alture della città.

E come ogni cosa inaspettata, che colpisce lo sguardo e l’attenzione, l’arcobaleno nella sua lucente semplicità ha tutta la potenza del mistero e della bellezza che è insita nella grandezza dell’universo, risveglia la nostra sorpresa e il nostro ingenuo stupore.

Nella mitologia greca l’arcobaleno è rappresentato da Iride, figlia di Elettra e di Taumante.
Una fanciulla bellissima, messaggera degli dei.
Iride percorreva il cielo recando sulla terra e negli abissi marini i messaggi degli dei dell’Olimpo, in particolare di Era e solcava l’azzurro lasciando il segno del suo passaggio, un arcobaleno luminoso e multicolore.

E’ la magia delle cose inattese e belle, che non si sanno comprendere.
E’ l’incanto che ti fa rimanere ad osservare, con muta ammirazione.
Una mattina, a Genova.

Sull’orizzonte
di un mare plumbeo
dopo la tempesta
pura luce
annuncia la pace
sotto l’arcobaleno.

Arcobaleno, di E.

Leucotoe e Clizia, la passione e la gelosia

L’amore, la gelosia e il senso di smarrimento che suscita l’abbandono.
Lei era la più bella, la più aggraziata e la più desiderata da colui che con il suo carro dorato percorreva il cielo illuminando tutte le terre.
Leucotoe è l’unica nei pensieri di Apollo, il dio del sole;  lui, bramoso di stringerla a sé, prende le sembianze della madre di lei e si introduce nella sua dimora, dove la fanciulla sta filando con le sue ancelle.
Il dio, nei panni della madre, sostiene che ha da rivelare un segreto.
Svelte, svelte, le ancelle escano dalla stanza!
E fu così che i due rimasero soli.
Eh, Apollo! Certo era un tipo sicuro di sé e del suo fascino! Del resto c’era da immaginarselo, non è mica da tutti essere fonte di vita e di calore.
E sapete cosa disse a Leucotoe per svelarsi? Sentite un po’ cosa ci racconta Ovidio.

Ille ego sum – dixit – qui longum metior annum,
Omnia qui video, per quem videt omnia tellus,
Mundi oculus. Mihi, crede, places.

Disse: Io sono colui che misura la lunghezza dell’anno
Colui che tutto vede, per il quale la terra tutto vede,
L’occhio del mondo. Tu mi piaci, credi a me.

Una presentazione in grande stile!
E nel pronunciare queste parole Apollo riprese il proprio aspetto  meraviglioso e splendente.
E secondo voi, un tipo del genere si aspetta un rifiuto?
Leucotoe rimase ammutolita, la conocchia e il fuso le caddero di mano e, volente o nolente, finì tra braccia di Apollo.
Eh, i seduttori! Con i loro comportamenti fanno certi danni!
La ninfa Clizia, che già era caduta nelle trame amorose di Apollo, vedendosi messa da parte a causa di Leucotoe, ardeva di gelosia.
Una gelosia assoluta e bruciante, che la spinse a cercare vendetta.
Beh, Clizia andò dal padre della sua rivale e svelò tutto ciò che era accaduto e la povera Leucotoe cercò in ogni maniera di giustificarsi.
Disse che lei non aveva colpa, Apollo non le aveva dato scelta!
Ma il padre, in preda all’ira, gettò la figlia in una fossa e la fece ricoprire di sabbia.
Accorse Apollo in aiuto della sua amata e con i suoi raggi scavò un buco nella terra in modo che il volto di Leucotoe potesse rivedere la luce.
Ma è impossibile sottrarsi al proprio destino, le belle fattezze della ragazza gelarono sepolte nella terra e il dio del Sole nulla poté per salvarla.
Apollo poté solo donare alla sua Leucotoe un profumo delicato e persistente, un aroma che si diffuse tutt’attorno, nelle viscere della terra il corpo della fanciulla si trasformò, le sue membra divennero radici e lei rinacque a nuova vita sotto forma di odoroso incenso.
E Clizia, la ninfa gelosa? Apollo non le perdonò il suo gesto e disdegnò per sempre la sua vista.
Clizia si abbandonò al suo dolore, lasciò la compagnia delle altre ninfe, rifiutò il cibo e per nove giorni rimase a terra, nutrendosi solo delle sue lacrime e di gocce di rugiada.
E il suo sguardo, quello sguardo pieno di amore e di desiderio, seguiva sempre Apollo nei cieli, a lui sempre volgeva il bel volto dilaniato dalla sofferenza.
E continuò a guardarlo, in ogni istante, in ogni respiro della sua esistenza.
E lo seguiva con gli occhi, mentre le sue membra nella terra prendevano altre sembianze, mentre diveniva verde di foglie e mentre il suo viso si mutava in fiore, in quei petali gialli del girasole che sempre seguono il calore del signore del cielo e il conforto dei suoi raggi.

La ninfa Io, i tradimenti di Giove e il mito del pavone

Il mito e la tradizione classica, le storie più belle ed appassionanti sono nate in epoche a noi lontane, eppure ancora oggi sono capaci di emozionarci.
Un fiume, una ninfa.
E’ giovane e leggiadra, sta tornando verso casa dove il padre Inaco la attende.
Qualcuno la osserva ammirato, è uno sguardo pieno di desiderio, lo sguardo di Zeus, il signore dell’Olimpo.
Scappa Io, corre a perdifiato nel bosco, tra gli alberi, tenta di nascondersi e di sfuggire al suo destino, ma Zeus non lo permette.
Ne fuge me, non fuggirmi, queste le parole di Giove nelle Metamorfosi di Ovidio.
E il padre degli dei fece scendere sui campi e sui boschi una scura nebbia, così Io fu costretta a rallentare la sua corsa e Giove la carpì facendola sua.
Oh, ma come mai questa oscurità a quest’ora? Si insospettì Giunone.
Dev’esserci qualcosa sotto, pensò la dea, alla quale erano ben noti i tanti tradimenti del marito che, pur di possedere le fanciulle che gli aggradavano, ricorreva a qualunque stratagemma.
E così, spinta dalla gelosia, Giunone scese in terra e fece diradare la caligine, per poter vedere cosa stesse accadendo.
Giove però, presagiva l’arrivo della moglie. Che fare? Per trarsi d’impaccio tramutò la povera Io in giovenca e quando Giunone si trovò al cospetto di quello splendido animale chiese di averla in regalo.
Giove, per non destare sospetti, si vide costretto a cedere.
E’ difficile prendere in giro una moglie, anche se sei il signore dell’Olimpo.
E Giunone, che aveva ben compreso che quella non era solo una giovenca, la affidò ad un guardiano di eccezione: Argo dai cento occhi, mentre due delle sue pupille dormivano, le altre erano costantemente posate su Io che pascolava sui prati.
E sì, lei avrebbe voluto supplicare Argo perché la liberasse, ma il solo suono che riusciva ad emettere era uno sconsolato muggito.
Un giorno la giovenca si avvicinò al fiume, dove tante volte da ninfa aveva giocato, si rispecchiò nell’acqua e atterrita per le proprie sembianze si ritrasse timorosa.
Lì erano le sue sorelle e suo padre, ma nessuno sapeva intravedere nella bella giovenca la fanciulla di un tempo.
Il padre le porse dell’erba da brucare ed Io, non avendo altro modo per farsi riconoscere, con la zampa tracciò una scritta sulla polvere.
Ma giunse l’implacabile Argo, che trascinò via Io e la portò sulla cima di un monte.
Giove, che aveva visto tutto e  non poteva tollerare che Io subisse ulteriori sofferenze, decise di inviare Mercurio a liberare la sua prediletta.
E così il messaggero degli dei, con gli abiti di un pastore,  si presentò ad Argo.
Mercurio cantò e suonò una musica dolce e suadente, narrò la storia di Pan e Siringa e con le sue parole riuscì nel suo intento: Argo cadde in un sonno profondo e mentre questi dormiva Mercurio gli tagliò la testa con quei cento occhi.
L’ira di Giunone non era ancora placata e la povera Io venne costretta a peregrinare per il mondo finché non giunse sulle sponde del Nilo dove, esausta, supplicò Giove di avere pietà di lei.
E sapete com’è, un marito fedifrago spesso sa giocare con le parole e sa convincere anche la moglie più diffidente.
E così Giove riuscì a persuadere Giunone che non aveva nulla da temere da Io ed una volta estinta l’ira divina della dea Io riprese le sue aggraziate fattezze di fanciulla.
Anche Argo, colui che era stato il suo guardiano, non era stato dimenticato.
Dopo la sua morte, Giunone raccolse la sua testa e mise quei cento occhi scintillanti di luce come ornamento della coda della creatura a lei sacra, il pavone, l’uccello dalla regale livrea per volere di una dea.

L’Olimpo

L’Olimpo e i suoi abitanti: un mondo pieno di fascino e di magia.
Personaggi ed interpreti, così umani sebbene divini, coi loro vizi e le loro virtù, sono parte integrante del nostro patrimonio culturale.
E quanto sono speciali questi dei dell’Olimpo!
A cominciare da lui, il supremo Zeus. Dio dalle molte amanti, si prende tutte le femmine che vuole a suo piacimento. E se loro per ritrosia non accettano la sua corte, lui trova comunque il modo per farle sue: con Danae diventa pioggia, con Leda si trasforma in un cigno, con la ninfa Callisto si traveste da Artemide.
Zeus è un dio assoluto, dominatore incontrastato, e oltre ad uno stuolo di amanti ha anche molteplici figli, gli dei dell’Olimpo sono quasi tutti della sua progenie.
Di moglie ne ha una e gli basta.
Lei, Era, è gelosissima delle innumerevoli avventurette del consorte, e non si fa scrupolo di mettere in atto crudeli vendette verso le amanti di Zeus.
La povera Eco, una ninfa che ha la sola colpa di tenere impegnata Era mentre Zeus se la spassa, verrà punita con la perdita della voce e sarà destinata a ripetere le ultime parole che le rivolge il suo interlocutore.
Sfortunata Eco, si innamorerà di Narciso, uno che sa amare solo se stesso e lei, per la disperazione, andrà a rifugiarsi nei boschi, svanendo nel nulla, lasciando di sé solo il rimbombo della sua voce.
La gelosia di Era, tuttavia, non esclude che la dea si abbandoni a sua volta ai piaceri del talamo: lo fa  innumerevoli volte, ora con Dioniso, ora con Crono ed è da quest’ultima unione che nascerà Efesto.
E’ brutto, il povero Efesto e narra la mitologia che sua madre, furibonda per aver generato un bambino tanto sgradevole, con fare tutt’altro che materno lo abbia preso e scagliato giù dall’Olimpo.
Ed Efesto, da quel giorno, è zoppo.
Di professione è fabbro, è lui a forgiare le armi e gli scudi degli dei.
Ed è a lui che, pur essendo claudicante e carente di ogni attrattiva, toccherà in sorte la più desiderata, la più venusta e leggiadra dea di tutto l’Olimpo: Afrodite, la dea dell’amore.
La quale, per nulla succube di quel marito che le è stato imposto, si fa prendere dalla passione per Ares, il dio della guerra, un maschio duro e puro, emblema della virilità e della prestanza fisica.
Ma molti altri, a parte Ares, avranno il favore delle sue grazie: ad esempio Ermes, il messaggero degli dei, con il quale Afrodite genererà Eros, quel piccolo dispettoso putto che se ne va a zonzo armato di arco e frecce, pronto a colpire al cuore chi si espone alle insidie dell’amore.
E fu proprio Eros a giocare un brutto scherzo ad Apollo, il dio del Sole.
Biondo, bello e luminoso, Apollo solca i cieli con il suo carro e porta la luce e il calore sull’umanità tutta.
Accadde un giorno che Apollo uccise il serpente Pitone e, come narra Ovidio nelle sue Metamorfosi, il dio del Sole prese a farsi beffe di Eros, chiamandolo frivolo ragazzo e sostenendo che le sue armi non avevano alcun potere, in paragone alle sue.
Eros, furibondo, si vendicò.
Aveva due dardi nella sua faretra: uno attirava l’amore, l’altro lo scacciava.
Il primo andò a colpire il petto di Apollo, l’altro si conficcò nel cuore della Ninfa Dafne.
E così Apollo, folle dell’amore che lo torturava per Dafne, prese ad inseguirla, mentre la ninfa lo rifuggiva terrorizzata, nascondendosi nei boschi.
La fanciulla arrivò persino a scongiurare il padre, il dio fluviale Peneo, di salvarla, mantenendo intatta la sua verginità. E il padre la ascoltò, trasformandola in una pianta d’alloro.
Apollo, disperato, trovò la maniera di tenere legata a sé per sempre Dafne, mutando l’alloro in una pianta sempreverde e consacrandola al suo culto.
Il mio capo, la mia cetra, la mia faretra avranno te sempre, o alloro, dice Apollo nel testo di Ovidio. E sarà questa pianta ad essere riposta sulle tempie degli uomini valorosi, dei condottieri e dei vittoriosi.
Ma quanto è crudele e vendicativo Apollo!
A Cassandra concede il dono della profezia, sperando così di sedurla ma quando lei non gli si concede, lui, sdegnato, la destina a non essere mai creduta e così sarà: Cassadra predirrà la distruzione di Troia, ma nessuno le darà credito.
Accadono queste vicende, lassù nell’Olimpo.
Accade che Atena, la dea della sapienza, venga a sapere che c’è una donna, una certa Aracne, che va a dire in giro di saper tessere meglio di lei.
Atena, infuriata, sotto mentite spoglie, si reca da questa donna e le dice di essere più umile, che certo la dea era più abile. Aracne non sente ragioni, anzi, sfida la sua interlocutrice ad una gara di tessitura. Atena accetta, riprende le sue sembianze e si mette a tessere. Ma Aracne, fatalmente, vince la gara e la dea, umiliata ed offesa, per vendetta la trasforma in un ragno.
Accadono queste cose, lassù nell’Olimpo, gli dei sono collerici, non perdonano.
Artemide, la gemella di Apollo, scatenò la sua ira sul principe Atteone, reo di averla sorpresa mentre faceva il bagno nuda e di essere rimasto a fissarla  incantato. E lei, per punirlo lo trasformò in cervo e il povero Atteone finì sbranato dai suoi cani.
Accadono questi fatti, lassù nell’Olimpo, e quando ci si innamora è sempre un sentimento assoluto, totalizzante, che annienta.
Non c’è pace, non c’è quiete ma, in compenso, non ci si annoia mai.
E ognuno ha il suo ruolo, lassù nell’Olimpo.
C’è Iride, la dea dell’Arcobaleno, messaggera degli dei.
Ci sono le nove Muse, che proteggono le Arti.
E le tre Moire, preposte al ciclo della vita. Sono loro che, con un fuso ed un  filo, segnano l’esistenza degli uomini:  Cloto fila il tessuto, Lachesi lo lavora, regalando ad ognuno un destino e Atropo taglia il filo, donando la morte.
Ci sono le tre temibili Erinni, Aletto, Tisifone e Megera, che sanno scatenare le vendette più feroci e devastanti ma anche le dolci, rasserenanti Grazie, Aglaia, Eufrosine e Talia, che personificano il senso di bellezza, armonia e gioia.
E poi, ancora, ci sono Pleiadi e Naiadi, Tritoni e Sirene, le Driadi dei boschi e le Ore che scandiscono il trascorrere delle stagioni.
Ma tra tutti, il più temibile è proprio lui, Eros il ragazzino con la faretra: state attenti, se vi colpisce con uno dei suoi dardi, potreste finire in un mare di guai.