Basilica di Santa Maria Immacolata: guardando la cupola, il campanile e i tetti

Vi porto ancora una volta a osservare prospettive inconsuete di Genova: sopra i tetti, là davanti alle scalette che conducono alla cupola della Basilica di Santa Maria Immacolata in Via Assarotti.
Questa chiesa maestosa fu progettata sul finire dell’Ottocento su progetto di Maurizio Dufour per essere poi aperta al culto 1873 ed è riccamente decorata sia all’esterno che nei suoi interni.

E così imponente si erge la cupola maestosa.

Si notano così alcuni particolari della ricca Basilica, ecco la sommità della facciata vista da tergo con il profilo del Cristo Risorto.
La magnifica statua è opera dello scultore Antonio Canepa.

Così la si ammira, da questo insolito punto di vista.

Sulla sommità della cupola è collocata la statua in bronzo dorato dell’Immacolata realizzata da Giuseppe Pellas su modello di Giovanni Scanzi.

Ebbi modo, in un giorno di sole radioso, di fotografarla in questa maniera.

Nei locali della sacrestia, poi, si conserva la statua un gesso fatta da Giovanni Scanzi che fu usata  come modello per l’opera sita sulla cupola.

Una grazia sublime l’avvolge, nella luce mistica della chiesa.

Ancora, tornando sui tetti, ecco uno scorcio di Via Assarotti e parte della Chiesa.

E poi ardesie, scale, finestre e la città sullo sfondo.

E altri dettagli della cupola.

E il campanile svettante che sfiora il cielo.

Il teatro Carlo Felice, la linea del mare, i tetti, i terrazzini, semplicemente Genova.

Ritornerò a scrivere di questa magnificente chiesa che racchiude opere dei più celebri artisti ottocenteschi, da Santo Varni ad Agostino Allegro, da Nicolò Barabino a Giovanni Scanzi, molto sono coloro che lasciarono il segno del proprio talento in questa Basilica.
Da qui ringrazio, riconoscente, chi ha reso possibile ammirare queste vedute straordinarie.

Nella Chiesa custodita dall’immagine dolce di Maria.

Là, dove si spande il suono delle campane della Basilica di Santa Maria Immacolata in Via Assarotti.

Un antico portale in Via Prè

È un antico portale sito all’inizio di Via Prè, salendo lungo questa storica strada del nostro centro storico, lo troverete alla vostra sinistra.
Vetusto, consunto, vissuto come sono certi edifici che hanno veduto scorrere i secoli: c’erano quando la nostra modernità non era nemmeno immaginabile.
Al tempo delle dame e dei cavalieri, in un tempo più lento.
Sul sovrapporta si distinguono le parole in latino Ecce Agnus Dei che significano Ecco l’Agnello di Dio.
Alcune decorazioni sembrano poi abrase e consumate ma ancora si ammira il profilo fiero di uno dei custodi di questa dimora.

E altri due sono scolpiti ai lati del portone.

La pietra racchiude la storia.
In silenzio, tenace e viva, malgrado il tempo che scorre.

E così quando passate in Via Prè cercate il civico 8.

E soffermatevi ad ammirare un antico portale ancora oggi accarezzato dalla luce che filtra nei caruggi di Genova.

La fierezza di San Giorgio

È fiero come un principe e saldo come la sua fede.
È un cavaliere ardito ed è uno dei Santi custodi della Superba: è il nostro San Giorgio, l’intrepido che uccise il drago.
Emblema del coraggio, è qui così effigiato nella sua eroica baldanza.

La sua mano è posata sullo scudo nel quale si riconosce la croce che figura sulla bandiera di Genova la Superba.
Croce rossa in campo bianco: la croce di San Giorgio.

La scultura proviene da quella Genova scomparsa e mai veduta che ancora rimpiangiamo ed è conservata al Museo di Sant’Agostino che al momento attuale è chiuso per restauri.
Sulla legenda che accompagna l’opera si legge che la statua proviene da una delle aree dove vennero operate delle demolizioni e così, un tempo, era sotto gli sguardi dei genovesi.
Nel cuore degli abitanti di questa città, come è noto, c’è sempre stato un posto speciale per San Giorgio, così mi piace pensare che questa statua fosse cara a molti.
Nel nostro cuore c’è poi anche un posto speciale per il Museo di Sant’Agostino: camminare in quelle sale, posare gli occhi sulle sculture e sulle opere un tempo collocate nelle strade di Genova è un privilegio senza pari, significa davvero percorrere luoghi mai veduti e ritrovarli ancora, nel nostro presente.
E così, quando sarà di nuovo possibile, desidero ritornare là, al Museo di Sant’Agostino, tra i frammenti di Genova perduta, dove si ammira anche la fierezza di San Giorgio.

Glicine di primavera

È il tempo del glicine di primavera che sboccia nei giardini e fiorisce odoroso.
E a me è molto caro il glicine di Via Piaggio che così accoglie i passanti: ci conosciamo dal tempo della scuola, già allora amavo ammirare i suoi fiori e la sua grandiosa bellezza.

Il glicine prospera e danza contro il cielo blu.

E sboccia così generoso.

Adorna le cancellate della Circonvallazione a Monte.

E dondola lieve nell’aria fresca di aprile.

E si offre ai piccoli insetti operosi che ronzano instancabili.

Così si posano sui dolci fiori del glicine.

Albero maestoso che rappresenta alla perfezione la beltà di questa stagione.

Sboccia anche il glicine bianco e questo in particolare è una sorta di istituzione del quartiere, un amato abitante di Castelletto.

Fiorisce sulla scala tra Corso Firenze e Via Paride Salvago.

Così regale, candido e lieve.

Come ad ogni primavera così celebro il glicine, dono magnifico della natura.

Profumato, nobile e gentile.

Con le sue cascate di fiori dalle sfumature delicate.

Incantevole, meraviglioso e adorato.

Glicine di primavera che generoso sboccia nelle strade di Genova nella nostra bella primavera.

 

In tre sul carretto

Sono in tre sul carretto e ripetono un gesto per loro forse quotidiano.
In un tempo lento, bucolico, lontano e antico.
Sono in tre sul carretto e questa è una foto di famiglia, io credo.
La mamma accenna un sorriso timido, la bambina resta composta con la sua frangetta e il cappellino, il bimbetto sembra curioso e divertito.
Il fatto è, io credo, che farsi fare un fotografia è per loro come un piccolo evento da celebrare, non certo una banale consuetudine.
E così, in questa particolare circostanza, ci si lascia prendere dall’emozione, dall’interesse per questa mirabolante novità, è un’esperienza insolita e a suo modo speciale.

Sono in tre sul carretto, in qualche località di campagna che non so riconoscere.
Si vedono sullo sfondo le case con i tetti di tegole, mi pare anche di notare sulla soglia di un cancello un ragazzino che osserva da lontano.
E poi ci sono gli alberi, forse il profumo del pane, magari il canto degli uccellini e il suono gorgogliante di un ruscello che fluisce come il tempo che scorre.
E ci sono loro, con i loro sorrisi ritrosi e con le loro ingenue esitazioni: loro tre, vicini, sul carretto.

Tornando all’Isola delle Chiatte

Tornando all’Isola delle Chiatte, in un pomeriggio di primavera, ho ritrovato il luccichio del mare, la linea dell’orizzonte, una scia chiara sull’acqua, nuvole bianche e cielo azzurro.

Sono le nostre amate prospettive di mare e di porto davanti alla Lanterna.

E blu e barche a riposo in attesa di nuove avventure.

E la superficie dell’acqua increspata d’argento mentre piano scende la sera.

E un tempo dolce, sul mare che culla i pensieri e le speranze.

Monumento Rosa: la grazia degli angeli

Ritorniamo nella quiete silenziosa del Cimitero Monumentale di Staglieno.
Collocato sullo Scalone a Ponente troviamo il magnifico monumento funebre della famiglia di Pietro Rosa, l’opera venne realizzata dallo scultore Paolo Vergassola nel 1910.
E sono colme di formidabile grazia le figure che compongono il bassorilievo bronzeo nel quale sono raffigurate la passione di Cristo e l’ascensione dell’anima verso il cielo.

Gli angeli dalla diafana leggiadria si levano leggeri: uno tiene tra le dita sottili la corona di spine, un altro regge la pisside contenente l’ostia.

E uno solleva un crocifisso verso il cielo.
E tutto è lieve, equilibrato e semplicemente perfetto.

Il monumento è realizzato in marmo bardiglio e racchiuso da colonne scure.

Trovo questo insieme particolarmente coinvolgente per la leggerezza inafferrabile degli angeli e per la loro indicibile grazia, la composizione delle figure restituisce un senso di mistica armonia.

E così, forgiate dal talento di un abile artista, le creature celesti custodiscono il sonno eterno di Pietro Rosa e dei suoi cari.

Il tempo delle Fiabe Sonore

Tutti quelli che sono stati bambini negli anni ‘70 hanno ancora una musichetta che gira per la testa, era una canzoncina che faceva proprio così:

A mille ce n’è
nel mio cuore di fiabe da narrar,
venite con me,
nel mio mondo fatato per sognar,
non serve l’ombrello,
il cappottino rosso, la cartella bella
per venir con me,
basta un po’ di fantasia e di bontà.

Le nostre amate Fiabe Sonore, come dimenticarle!
Erano per noi un momento di entusiasmante felicità: un libro illustrato con il testo della fiaba, un 45 giri e un mondo magico nel quale immergersi completamente.
Bastava un semplice mangiadischi colorato e partivano così quelle note ancora così care.

Quei libretti, erano poi impreziositi da magnifici disegni, le Fiabe Sonore vibravano nel loro universo incantato di creature meravigliose e sorprendenti: bimbetti avventurosi e principesse delicate, orfanelle intrepide e principi azzurri, c’erano foreste, laghi, castelli, casette nel bosco.
E incantesimi, magie, sassolini lasciati per terra per ritrovare la strada di casa, mele stregate, casette di zucchero e acciarini magici, nel mondo delle fiabe tutto precipita e poi si risolve, nel mondo delle fiabe gli animi nobili e i cuori generosi, alla fin fine, vengono sempre ricompensati.
Una su tutte era la mia fiaba prediletta, in passato ho già avuto modo di scriverlo: ho sempre avuto un debole per I fiori della Piccola Ida, quei fiori che tutti eleganti se ne andavano ogni sera spensierati a ballare.
Amavo la fiaba dei cigni selvatici e quella dei sette corvi, Pelle d’Asino e la Guardiana di oche, noi ascoltavamo queste vicende infinite volte e non ci annoiavamo mai.
Ogni tanto, ai mercatini, mi capita di trovare le Fiabe Sonore.
È un’eredità preziosa, secondo me.
E sapete come la penso?
Credo che quei volumi usati conservino tra quelle pagine anche i nostri lontani stupori, la meraviglia dell’infanzia, la gioia della scoperta e delle mille avventure di questo mondo incantato.
Anche da grande, come molti di voi, io non ho mai smesso di leggere le fiabe, è una magia che sempre ritorna e non ha mai fine.
E d’altra parte di ricordate come proseguiva la canzoncina al termine di ogni Fiaba Sonora?
Quel motivetto faceva così e noi non possiamo certo dimenticarlo.

Finisce così
questa favola breve se ne va.
Ma aspettate, e un’altra ne avrete.
“C’era una volta …” il cantafiabe dirà
e un’altra favola comincerà!

Chiesa di San Siro: l’Ultima Cena di Orazio De Ferrari

È un grande dipinto, un autentico capolavoro dell’artista voltrese Orazio De Ferrari che lo realizzò intorno al 1647.
La sua Ultima Cena era da principio destinata all’Oratorio di Santa Maria degli Angeli che fu soppresso nel 1811 e venne poi distrutto da un bombardamento aereo durante la II Guerra Mondiale.
L’oratorio era nelle vicinanze della magnificente Chiesa di San Siro dove poi, in seguito alla soppressione dell’oratorio, trovò spazio la magnifica opera di De Ferrari ora collocata nella Sacrestia Monumentale della Chiesa.

È un dipinto potente per i suoi contrasti e per l’efficacia delle figure.

Gli angeli e la colomba dello Spirito Santo sovrastano il Figlio di Dio.

Spiccano le tinte accese di certi manti e colpiscono gli sguardi e le espressioni eloquenti, coinvolte e meravigliate degli apostoli.

Luccicano gli ori in questa ricchezza di dettagli che merita di essere ammirata.

Tra luce e ombra si scorgono il bene e il male, il tradimento e la fede.

E un chiarore lucente avvolge il capo di Gesù.

Questa è una delle opere che potrete vedere visitando la Chiesa di San Siro, antica Cattedrale della Superba in tempi lontani.

Il dipinto, valorizzato da un recente sapiente restauro, è visibile al pubblico ogni sabato pomeriggio dalle 16.00 alle 18.00.
Lo potrete ammirare nella Sacrestia Monumentale della Chiesa di San Siro dove i vostri occhi ritroveranno così la potenza espressiva dell’Ultima Cena di Orazio De Ferrari.

Gita di primavera

Era una di quelle giornate dolci dal clima tiepido, avvolgente e luminoso.

E l’onda lenta cullava quegli istanti di un tempo felice: ecco un compito signore con i baffi, due giovani donne e una creaturina dalle guance paffute che si porta il ditino alla bocca.

Un abito candido, una collana di pietre dure, un sorriso formidabile e gli occhi profondi coperti dalla veletta per ripararsi dal sole.
Una raffinatezza tutta femminile, nel giorno prescelto per una bella gita.

Il vento scompiglia un po’ i capelli e smuove le vezzose finiture dell’ombrellino parasole e si sorride, con gli occhi e con le labbra, così accade quando la vita sa essere dolce.

Sullo sfondo, in lontananza, si scorge appena un tratto di costa, difficile stabilire il luogo preciso.
Giunge invece netta, reale e autentica la serenità di un istante perfetto, una gioia semplice e irripetibile, un ricordo da custodire nella mente e nel cuore.