Aglaja – Una rinascita

“Il bianco del grande battello contrastava nettamente col verde cupo del Nilo, un colore unico al mondo, da millenni portatore di vita e di morte. Ecco, pensava Aglaja, questo è il Nilo, una striscia scura che corre da sempre in mezzo ai colori caldi e forti dell’Egitto.”

Il viaggio che sta iniziare a bordo del Karnak II è quello che compirà la protagonista del romanzo dal titolo “Aglaja – Una rinascita” di E. M. Mikalis nom de plume di una scrittrice brillante e arguta, amante della storia, della filosofia e dell’arte in ogni sua forma.
Queste sue passioni animano anche lo spirito della giovane donna protagonista del suo libro: Aglaja è di Sidney, è una redattrice di successo di una rivista di viaggi e si trova in Egitto per lavoro.
Ad accompagnarla sono due colleghe con le quali Aglaja vivrà alcuni notevoli contrasti, il suo carattere del resto non le consente compromessi, Aglaja e una donna forte e determinata.
Ed è esile e sensuale, poliedrica, testarda e battagliera ma anche molto tormentata e in lotta con le sue fragilità, l’animo di lei non conosce pace.
Il suo viaggio, poi, è anche la metafora di un viaggio più profondo ed intimo alla scoperta di se stessa nel quale lei si svelerà come “una viandante intrepida”.

In questa sua avventura il destino pone Aglaja in una situazione imprevista: ritroverà Frederick, un suo antico amore con il quale i conti non sono per niente chiusi.
Va detto che alla nostra giovane protagonista non mancano certo gli spasimanti: Aglaja è una che lascia il segno ma Frederick ha lasciato una traccia profonda dentro di lei.
E le vite dei due, fatalmente, si intrecciano ancora.
Dal misterioso Egitto alla scintillante New York le ambientazioni del romanzo sono accattivanti e suggestive, delineate sempre in maniera onesta e credibile.
La cornice restituisce poi un dipinto d’insieme e al centro di esso c’è sempre Aglaja e il suo gioco con il proprio destino.
Tra queste pagine non mancano le digressioni filosofiche e i caratteri dei diversi personaggi sono tratteggiati con sapienza e ben definiti, la scrittura della Mikalis è puntuale, efficace, fa subito centro e va dritta al cuore: come Aglaja, del resto.
Nella trama si intrecciano così vicende sentimentali e tormenti dell’anima più legati alla personalità che al trasporto amoroso e quando si crede che i protagonisti si siano avviati su un certo cammino ecco che l’autrice ribalta la situazione e finisce per sorprendere il lettore.
E così si svela una nuova Aglaja, con nuovi talenti, uno spirito ancor più combattivo e un orizzonte per nulla prevedibile.
È un romanzo godibile e dal ritmo sempre sostenuto, Aglaja sa essere una piacevole compagnia e se vorrete conoscerla e leggere la sua storia qui potete acquistare il volume.
Ognuno ha il proprio sguardo sul mondo, quello di Aglaja è certamente insolito e non lascia indifferenti.

“Se la Vita era un pendolo che oscillava tra noia e dolore, sosteneva Aglaja, allora bisognava cogliere ogni frutto possibile quando toccava la sua acme, quando era al culmine.”

Le lupe di Pompei

L’Attica. Quante cose in una parola sola. L’orgoglio della sua origine, il dolore per quanto ha perso. Casa. D’un tratto la sente più vicina.

Lo sguardo che si perde lontano, nel rimpianto e nella nostalgia della propria esistenza perduta, è quello di Timarete, greca di Afidna, figlia di un medico e schiava a Pompei con il nome di Amara.
È il 74 d.C., cinque anni prima della drammatica eruzione del Vesuvio che travolgerà Pompei e con essa i suoi abitanti.
Amara è un ragazza del lupanare di Pompei e viene venduta senza troppi riguardi dal suo padrone Felicio così come le schiave Didone, Berenice, Vittoria e Cressa, nessuna di loro porta il proprio nome, nessuna di loro ha più un legame con il proprio passato.
Le lupe di Pompei è il primo straordinario volume della trilogia scritta da Elodie Harper e pubblicata da Fazi Editore, un libro magnifico scritto con vivace sapienza e ricco di dotte citazioni.
È una storia di sopraffazione e di sopravvivenza, è una storia di dolori e di speranze negate, è una storia di sconfitte e di coraggio, si coglie una varietà di emozioni diverse sui visi di queste giovani donne.
Ed è una storia di libertà, sognata, inseguita, inarrivabile, per qualcuno neanche più immaginabile.

Pensa a quando vedi un uccello volare. Nell’istante in cui decide di scendere in picchiata o salire ancora di più, quando c’è solo l’aria a fermarlo; ecco, quella è la sensazione della libertà.

Ognuna delle ragazze troverà il proprio imprevedibile destino, la loro vita è faticosa e carica di violenza.
L’autrice usa spesso, volutamente, un linguaggio crudo nel quale non mancano parole scurrili: è lo stesso modo di esprimersi che si trova inciso nelle iscrizioni lasciate sui muri di Pompei dai suoi antichi abitanti o in certi epigrammi licenziosi di Marziale o in alcune poesie di Catullo.
È la vita vera quella cosa lì e ci lascia stupefatti e attoniti davanti alle difficoltà che queste giovani devono affrontare.
Con talento la Harper ci offre un punto di vista inusuale su questo mondo e su questa società dai valori molto diversi dai nostri: è lo sguardo delle donne e delle schiave.
L’intreccio, complesso e avvincente, si snoda sulla loro quotidianità descritta con minuziosa perizia: si cammina per le vie di Pompei, si seguono le ragazze ai Vinalia e ai Floralia, le si osserva scegliere una stoffa per un’esibizione, si comprende che in questo mondo anche i più crudeli, in realtà, sono degli sconfitti.
Le vite di queste donne si reggono sulla solidarietà, sull’amicizia, sull’affetto che riescono reciprocamente a darsi.
E Timarete, detta Amara, palpita ricambiata per Callia, anche lui schiavo e noto come Menandro, figlio del miglior ceramista di Atene.
E il loro è un amore fragile e ha il sapore dell’amarezza, è un amore che non conosce libertà.
Timarete e Callia, il vero nome: la cosa più preziosa che ognuno ha.

A Pompei nessuno ha mai osato chiederglielo: il vero nome è l’ultimo residuo di privatezza, di se stesso, che rimane a ogni schiavo un tempo nato libero.

Ogni minuto è fatica nel lupanare.
Le voci delle amiche, un sacco di fave per giaciglio, le luci delle lanterne, i clienti, gli abiti che denunciano lo stato di schiave.
E l’immaginario si intreccia alla realtà.
Allo spettacolo dei gladiatori, ad esempio, le ragazze vanno in visibilio per il prestante Celado che è realmente esistito.
Il suo nome è inciso infatti nella scuola dei gladiatori di Pompei e così ci è stato tramandato il ricordo di lui:

Suspirium puellarum/traex/Celadus.

Sospiro delle ragazze/il tracio /Celado.

Non è il solo personaggio reale che incontriamo tra le pagine del romanzo: Amara conoscerà Gaio Plinio, comandante in capo della flotta imperiale, studioso e naturalista noto come Plinio il Vecchio.
Le pagine dedicate al suo confronto con questa figura così carismatica sono tra le più intriganti ed avvincenti, si resta con il fiato sospeso a seguire i tentativi di Amara di trovare uno spiraglio di fiducia, un nuovo inizio.
Al tempo dell’eruzione del Vesuvio Plinio il Vecchio si trovava a Miseno, in qualità di comandante della flotta.
Si avvicinò a Pompei per osservare ciò che accadeva, prestò soccorso ad alcuni amici e perse la vita egli stesso morendo probabilmente soffocato.
Il racconto della sua morte e di ciò che egli vide ci è stato tramandato da suo nipote Plinio il Giovane in due lettere che egli scrisse a Tacito.
Presumendo che nei volumi a seguire si affronti l’eruzione di Pompei ritengo plausibile ritrovare ancora Plinio il Vecchio descritto dalla sagace penna di Elodie Harper.
Questo romanzo potente è una lettura magnifica e lascia una sensazione di aver impegnato le proprie ore in un vero viaggio a ritroso che offre molti spunti di riflessione.
E al di là di tutte le inevitabili differenze che ci fanno sembrare quel mondo lontano dal nostro, un filo sottile ci unisce ad Amara, Berenice e a tutte le altre: è l’essenza del cuore umano, la perpetua ricerca di amore e felicità, con la speranza di trovare infine il proprio posto nel mondo.

Timarete, persino gli schiavi sono padroni della loro felicità. Anzi, le emozioni sono le uniche cose che possediamo.

Kiki di Montparnasse

“All’epoca di Alice Montparnasse era chiamato dai parigini «il Quartiere» perché era unico e senza rivali, tanto singolare da non esigere alcuna ulteriore designazione.”

Parigi, anni ‘20: il quartiere favoloso della Rive Gauche parigina diviene scenario di fermento artistico e di nuove modalità espressive, in questo contesto creativo rifulge l’astro di Kiki, al secolo Alice Ernestine Prin, figlia illegittima di una giovane madre umile e priva di mezzi.
La piccola Alice cresce con la nonna, poi a 12 anni si trasferisce con la mamma a Parigi, è appena tredicenne quando inizia a fare qualunque tipo di lavoro: la magliaia, la lavabottiglie, l’apprendista rilegatrice.
Non starà molto con la mamma e finirà per lavorare per un fornaio, avendo nella mente però un altro mondo, un diverso destino.

“Sognava di innamorarsi di un poeta, un pittore o un attore. Sentiva che stava per succederle qualcosa di grande.”

Alice diventerà modella per gli artisti, Montparnasse sarà il suo mondo e Kiki il suo pseudonimo, a darglielo sarà Maurice Mendjizky, pittore polacco di 28 anni e primo amore della diciassettenne Kiki.
Kiki legherà poi parte del suo destino e del suo percorso artistico a Man Ray, l’artista e fotografo che lascerà di lei molti ritratti che ancora apprezziamo e che hanno reso eterna l’immagine della sua musa.
La storia di lei e del suo mondo è narrata in maniera elegante e magistrale nel libro di Mark Braude dal titolo Kiki di Montparnasse e pubblicato in Italia da Beat Edizioni.

Eclettica, estrosa, sregolata, inquieta, Kiki è una donna passionale e vivace e sarà non solo modella ma anche cantante, ballerina, attrice dei primi film surrealisti, pittrice e scrittrice, consegnerà ai posteri le sue memorie e la sua autobiografia sarà un successo internazionale.
Man Ray, con il quale lei visse una lunga e appassionata relazione amorosa, la ritrasse in quelle fotografie che rimandano ai nostri sguardi lo stile e il gusto di un’epoca: è la schiena nuda di Kiki sulla quale sono disegnate due chiavi di violino ad essere immortalata nella celebre fotografia di Man Ray dal titolo Le Violon d’Ingres e risalente al 1924.
Ed è tante volte Kiki, con il suo fascino forte e potente, con il suo caschetto nero e con gli occhi scuri, ad essere ritratta in pose diverse da Man Ray.
Questo libro, intenso e incalzante, non racconta soltanto una vita: narra una stagione artistica, i suoi stili, i movimenti creativi, i protagonisti che in qualche modo lasciarono il segno.
C’è il bel mondo, nelle pagine di questo libro, tra gli altri si incontrano Amedeo Modigliani per cui Kiki posò, Peggy Guggenheim, Picasso, Duchamp ed Ernest Hemingway, questa Parigi che affascina Kiki diviene per l’americano Man Ray il luogo nel quale egli sceglierà di esercitare la sua arte.

“Come qualunque nuovo arrivato, Man Ray era smanioso di credere a un certo mito della Parigi bohémien come luogo incantato, libero dalle regole e dalla repressione della normalità, dove arte, letteratura e musica erano le uniche cose che contavano e nessuno parlava mai di proprietà immobiliari, di tasse o di fare e allevare figli. La città lo entusiasmò subito.”

Le regole: Kiki le rifiuta, le sfida, le infrange.
È sfrontata, esagerata, ha un culto per gli eccessi, per certi versi il suo agire la rende anche, in qualche maniera, ruvida e dura.
E devo ammettere che la figura di Kiki non sempre mi ha suscitato empatia: ma po si ripensa a lei bambina già abituata a un deserto di affetti e allora la si riguarda con maggiore indulgenza, quasi con tenerezza.
Il libro è scritto con grazia e competenza e si legge con interesse, credo sia una splendida lettura per coloro che vogliano avvicinarsi ai movimenti artistici descritti in queste pagine nelle quali si restituiscono vividi ritratti dei protagonisti di un tempo e di un luogo, tra le gallerie d’arte e i locali di Montparnasse.
L’astro luminoso di Kiki brillò radioso in quegli anni ‘20, quello fu il suo decennio: con la crisi del 1929 tutto cambiò e quel mondo con i suoi ritmi folli e sregolati svanì.

“Molto probabilmente i postumi di sbornia degli anni Trenta furono in parte un sollievo per molti, a Montparnasse. Non avevano più il dovere di ballare tutta la notte sull’orlo di un vulcano.”

Kiki a quell’epoca dipingeva, l’amore con Man Ray era un ricordo lontano, lei cantava nei locali notturni e nei night club, una sera a sentirla andò anche la scrittrice Anaïs Nin che annotò poi l’evento tra le pagine del suo diario.
Lentamente, quel mondo lasciò posto a una diversa dimensione, di lì a poco la guerra avrebbe sconvolto l’Europa e l’intero pianeta.
Rimase la memoria di un’epoca marcata da un diverso spirito, da geniali protagonisti e da incontri fatali che ad alcuni avevano cambiato l’esistenza.

“La vita sulle terrasses dei café non era più entusiasmante come un tempo. Non si poteva più star seduti a scoprire chi sarebbe arrivato, con la certezza che alla fine sarebbe arrivato qualcuno a trasformare la serata in un’avventura improvvisata.”

Il tempo della speranza

Dipingeva in una sorta di lucida ebrezza.
I colori avevano ripreso a cantare dentro di lei, ma non in modo dissonante come accadeva con l’astrazione, bensì in melodie perfettamente armoniche.

Eccola Florentine, da tutti detta Flori, la più piccola delle ragazze Thalheim, una giovane donna in cerca del suo destino e protagonista di Il tempo della speranza, terzo ed ultimo volume della trilogia scritta da Brigitte Riebe dedicata alle vicende di una famiglia tedesca.
La trilogia, pubblicata da Fazi Editore, attraversa diversi anni della storia del paese, offrendo uno spaccato su una quotidianità a volte luminosa e a volte difficile da conquistare.
Le vicende della sorella maggiore Rike ambientate nel primo dopoguerra sono narrate nel primo volume Una vita da ricostruire del quale ho scritto qui, alla brillante Silvie e alla sua giovinezza trascorsa negli ‘50 è dedicato invece il secondo volume Giorni felici da me recensito qui e infine sulla giovane Flori la Riebe ha scritto questo conclusivo volume ambientato negli anni ‘60.
Flori è una ragazza inquieta e a suo modo ribelle, segue il suo istinto e il suo temperamento artistico: al principio del romanzo la troviamo di ritorno da Parigi con tante idee e progetti per la testa e con la certezza di non desiderare un impiego nei grandi magazzini di famiglia in questa Berlino che è scenario del romanzo.
No, il mondo della moda non fa per lei, Flori ama l’arte e la pittura, cerca così la sua indipendenza, la sua libertà e la sua identità, trovando ostacoli a volte ardui da superare.

Ricominciarono le lunghe notti davanti al cavalletto, ma stavolta non era mossa dall’euforia che aveva provato all’inizio dell’innamoramento, ma dalla pura disperazione.
Dipingeva per sopravvivere, questo era ciò che sentiva Flori.

La vita, per Flori, è anche passione e le sue relazioni sono tempestose e complicate, crescendo tuttavia scoprirà che a volte il sentimento autentico si trova là dove non si sarebbe mai immaginato.
Si compiono i destini e le vite, il mondo cambia.
E in questa Germania degli anni ‘60 compaiono anche alcune figure indimenticabili come la leggendaria Marlene Dietrich e i Beatles in concerto ad Amburgo.
E in questa tormentata Berlino si compie un evento destinato a stravolgere i destini dei tedeschi: la costruzione del muro.
La Riebe, con riconosciuto talento, sa mescolare contenuti di diverso spessore con abile maestria e propone un intreccio gradevole con i giusti accenti di leggerezza mantenendo l’attenzione sulle note vicende berlinesi con misurati approfondimenti che restituiscono un romanzo perfettamente equilibrato e armonioso.
E così tra le pagine di questo libro trovano spazio le emozioni delle persone divise dal muro e pagina dopo pagina Flori acquista consapevolezza e nuovi talenti espressivi: le sue foto del muro di Berlino saranno un successo, la fotografia diverrà per Flori il mezzo per trovare anche un nuovo legame con l’impresa di famiglia.
E qui, in questa Berlino tormentata e divisa, arriva un giorno il Presidente Kennedy che davanti a una folla trepidante pronuncerà il suo celebre discorso e ad ascoltarlo c’è anche Flori con la sua macchina fotografica e accanto al suo amore.

Berlino, la città in prima linea, la polveriera, ne aveva passate tante e si era sempre risollevata. Entrambi si sentivano a casa in quella folle metropoli e l’amavano follemente. Proprio come si amavano loro.

Questo è Il tempo della speranza.
La voglia di ricominciare, di guardare al futuro con rinnovato ottimismo, progettando il domani con la fiducia di realizzare i propri sogni.
Avvincente, movimentato, questo volume chiude brillantemente la trilogia della Riebe e forse, per la caratteristiche della protagonista, è il romanzo che ho preferito tra i tre.
Ho seguito volentieri le vicende delle ragazze Thalheim, a volte i personaggi letterari sanno essere una splendida compagnia.
E ho guardato con indulgenza alle debolezze di Flori, a certe sue incertezze e alle sue penombre sulle quali scendono come un raggio di sole le parole di colui che lei hai scelto come compagno della sua vita.

Tutte le cose belle ritornano prima o poi, e a volte non è che l’inizio di una nuova scoperta.

Come in una poesia di Giorgio Caproni

A volte la poesia è lì, davanti ai tuoi occhi.
Un frammento di città, un istante di una giornata, la luce pomeridiana prima del tramonto.
L’acqua del mare che si increspa, il tempo che scorre.
E le parole, le parole di un grande poeta.

Genova tutta colore.
Bandiera. Rimorchiatore.

Litania – Giorgio Caproni

Stella Nera – Il grande domani

Cadeva un pioggia regolare, dentro un giorno che si era fatto più freddo. In breve giunsero su Via Paleocapa e si diressero verso la Torretta. I negozi, i bar erano aperti, e la gente affollava i portici dove una luce quasi mattutina rischiarava le volte, i visi e le vetrine.

È un chiarore invernale ad illuminare questo scorcio di Savona che è lo scenario della vicenda di Stella Nera – Il grande domani, terza e ultima parte della trilogia scritta da Marco Freccero.
Qui trovate la mia recensione del primo romanzo della serie intitolato Stella Nera – Le luci dell’Occidente e qui la recensione dedicata a Stella Nera – La Promessa.
La città è una delle grandi protagoniste di queste vicende e in questo scorcio del 1987 ritroviamo Davide, Filippo e Massimo, i tre amici che condividono l’esperienza dell’obiezione di coscienza e un mondo di misteri inesplicabili.
Delitti, personaggi sinistri, domande alle quali si cerca affannosamente una risposta.
E c’è un celebre dipinto del Bernini da ritrovare, questo Ecce Homo del Bernini è una di quelle cose che fanno fantasticare i protagonisti del romanzo e anche noi lettori!
Restiamo tutti in attesa che una porta si socchiuda per spalancarsi su questa bellezza da tutti così ricercata.
Dove sarà finito questo dipinto?
Verrà finalmente rinvenuto?

Si trova poi, in queste pagine, la storia di una professoressa che a questo dipinto ha dedicato anni di studio e passione scrivendo un libro che deve essere dato alle stampe.
E c’è un prete, lo zio di uno dei ragazzi, pure lui andrà a finire nei guai.
Riemergono, da un lontano passato e dai tempi della II Guerra Mondiale, le vicende di una donna tedesca e di suo fratello, riprendendo naturalmente il filo degli eventi descritti nei precedenti romanzi.
E l’intreccio, fatalmente, si complica e si arricchisce di colpi di scena.
Se leggerete la trilogia di Stella Nera ritroverete un orizzonte ligure, questi misteri tutti da scoprire e cesellati con pazienza da Marco Freccero.
È un libro sincero, credibile, coinvolgente al punto giusto e si avvale della bella scrittura di Marco Freccero: diretta, priva di fronzoli, moderna ed efficace.
Uno scrittore, a mio parere, deve conoscere bene i luoghi e i tempi che intende proporre, deve saper guardare il mondo con gli occhi dei suoi personaggi, offrendo al lettore un punto di vista inedito che sia per autentico e probabile, senza essere artefatto: nella mia opinione l’autore ha centrato appieno il bersaglio, offrendo una storia pienamente convincente.
I tre libri di Stella Nera sono adesso proposti in un volume unico e se volete immergervi in questa storia savonese vi rimando al blog di Marco Freccero, qui trovate l’articolo di presentazione e tutte le informazioni per acquistare il volume.
E seguendo le vite dei tre ragazzi in questa storia intricata e densa di sorprese vi accorgerete che questa trilogia è un inno ai valori della vita e all’importanza dell’amore, è la riscoperta dell’importanza dell’amicizia, fraterna, profonda e vera.
Ed è un richiamo a volgere lo sguardo nella giusta direzione: ce n’è sempre una, bisogna soltanto trovare la strada.

Ci sono quelli che dicono che le cose vanno da sempre in un certo modo e non si possono cambiare, e coloro che si battono per cambiarle.
Voi, da che parte volete stare?

The boys

“Ai nostri occhi la nostra infanzia era normale ma era tutto fuorché questo…”

Questa è la storia di due fratelli: i ragazzi Howard.
The boys – due vite, un’autobiografia è il libro scritto con passione da Ron Howard e Clint Howard e pubblicato in Italia da Baldini Castoldi.
Dei due fratelli il più celebre è certamente il maggiore, Ron Howard è un famosissimo attore e regista e impersonò anche Richie Cunningham in Happy Days e allora tutti noi forse lo consideriamo quasi come un amico, uno che in qualche maniera ha fatto parte delle nostre vite.
Prima di approdare su quel set Ron è stato un bambino prodigio, il libro è il racconto di quell’infanzia favolosa e dell’adolescenza negli anni ‘60 e ‘70.
I genitori di Ron e Clint, Rance e Jean Howard, si lasciarono alle spalle l’Okahoma e giunsero in California in cerca di successo nel rutilante mondo dello spettacolo: saranno proprio loro a segnare la strada per i due figli che fin da bambini mostreranno curiosità, interesse ed entusiasmo per il mondo del cinema.
Il libro è un racconto a due voci che tiene sempre il focus sull’importanza dei legami e degli affetti famigliari, è una storia che scorre rapida come la sceneggiatura di un film di Ron Howard il quale, oltre ad essere un attore di talento, diverrà poi anche sceneggiatore, produttore e acclamato regista di celebrati film come Cocoon e A Beautiful mind, giusto per citarne un paio.

E in un libro che narra Hollywood e le avventure di due giovani attori non mancano certo le rivelazioni su alcuni segreti del cinema e su certi trucchi usati sul set, ad esempio ho trovato molto spassoso un aneddoto riguardante il piccolo Clint e un suo ruolo in Star Trek.
La vita di Clint non sarà poi sempre facile, sarà segnata infatti dalle dipendenze dalle quali, con forza e volontà, saprà tirarsi fuori.
E poi c’è lui, il fantastico Ron, il bambino con le lentiggini di Una fidanzata per papà di Vincent Minnelli.
Ron che appena da ragazzino si innamora di Shirley e sarà lei e soltanto lei la donna della sua vita.
Ron che cresce giocando sui set e che ci racconta di quando andava in bicicletta lungo i binari della ferrovia di Via col vento.
Ron che diviene una stella di prima grandezza in un film cult di un’intera epoca: American Graffiti.
Ron che infine veste i panni di Richie Cunningham in Happy days e la famiglia del telefilm sarà come una seconda famiglia.
Henry Winkler, interprete dell’indimenticabile Fonzie, sarà il suo migliore amico e sarà anche il padrino dei 4 figli di Ron.
Se amate il mondo del cinema questo libro è per voi, tra queste pagine si incontrano delle vere celebrità e si trovano episodi memorabili, è una lettura davvero piacevole.
E riguardo ai giorni di Happy Days Ron racconta che durante un tour promozionale le fan andavano in delirio per quei giovani attori: una ragazza una volta aveva gli tolse dalla testa il cappello da baseball che Ron corse subito a recuperare.
Straordinario poi un aneddoto che riguarda Henry Winkler che, sempre in occasione di un tour promozionale, si trovava su una limousine insieme a Don Most, l’attore che interpretava Raph Malph.
La folla impediva alla macchina di passare quando ad un tratto ecco cosa accadde:

“La crisi fu scongiurata solo quando Henry usò la sua voce da Fonzie per rivolgersi alla folla.
«Ora voglio dirvi una cosa», esclamò «vi dividerete come il Mar Rosso». Schioccò le dita come faceva in TV per chiamare le ragazze. La folla si aprì obbediente creando un varco verso l’auto.”

Ho letto questo libro con affetto e con un senso di gratitudine per queste memorie svelate e condivise con il pubblico di un pianeta intero,
Accade, a volte, che qualche stella lontana di Hollywood ci appaia più vicina, come una presenza del nostro vissuto.
E accade così che, in qualche modo, pensiamo un po’ anche a noi stessi, mentre magari ci ritorna in mente la scena di un film o risuona nella nostra memoria la colonna sonora di un telefilm che ci ha fatto compagnia in certi giorni della nostra vita.
E quella cosa lì, in una maniera che non so spiegare, è una dolce nostalgia.

Un burattino di legno

“Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò mezza rivoluzione. Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.
Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate. … Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:
– Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!…
– È Pinocchio davvero! – grida Pulcinella.
– È proprio lui! – strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.
– È Pinocchio! È Pinocchio! – urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori delle quinte.
– È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio.”

Carlo Collodi – “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”

Due settimane in settembre

“Tutti gli uomini sono uguali in vacanza: tutti liberi di fare castelli in aria senza preoccuparsi delle spese e senza possedere competenze da architetto. Sogni fatti di una materia così impalpabile devono essere coltivati con venerazione e tenuti lontani dalla luce violenta della settimana seguente.”

Così iniziano le vacanze della famiglia Stevens, in certe giornate luminose sul finire dell’estate.
Gli Stevens abitano a Dulwich, un sobborgo nel sud est di Londra.
Gli Stevens, ogni anno e ormai da molti anni, sono soliti trascorrere le vacanze sempre nello stesso posto: la pensione Vistamare a Bognor Regis.
Il loro soggiorno poi ha sempre la stessa durata: esattamente Due settimane in settembre, come recita il titolo del magnifico romanzo dedicato alle avventure di questa famiglia inglese scritto da R. C. Sherriff nel 1931 e pubblicato in Italia da Fazi Editore.
Facciamo così la conoscenza degli Stevens: il Signor Stevens è impiegato, la moglie è casalinga, i due hanno 3 figli, Mary e Dick sono già grandicelli e lavorano entrambi, Ernie è invece il piccolo di casa e ha appena 10 anni.
Ogni anno, con grande aspettativa, tutti si preparano con cura per trascorrere l’agognata vacanza a Bognor Regis: a dire il vero la pensione Vistamare non è proprio lussuosa, anzi è piuttosto modesta e mostra diversi segni di decadenza ma per gli Stevens è un luogo del cuore.
La partenza per Bognor Regis prevede tutta una serie di precisi rituali: si tratta del ruolino di marcia del signor Stevens.
Meticoloso e metodico, il capofamiglia è solito compilare una lista precisa di tutte le incombenze da sbrigare prima delle vacanze e non si scorda di affidare il canarino ad una solerte vicina che se ne occuperà.
Per arrivare a Bognor Regis c’è un lungo viaggio in treno da affrontare e si protrae per molte pagine, è una vera delizia viaggiare con gli Stevens mentre al di là del vetro scorre rapido il panorama e la meta si avvicina.

E tutto è così normale, tranquillo e deliziosamente famigliare: questo romanzo, nella sua disarmante semplicità, rappresenta un autentico elogio della quotidianità e delle piccole gioie della vita.
Pagina dopo pagina, grazie al mirabile talento dell’autore, sembra quasi di conoscere davvero gli Stevens.
Al mare, a Bognor Regis, si fanno lunghe passeggiate sulla spiaggia e ci si diletta con i passatempi tipici del posto, ogni anno si sceglie un souvenir da portare in regalo alla vicina di casa e bisogna darsi un po’ da fare per aggiudicarsi la cabina migliore.
La Signora Stevens in queste vacanze ama in particolare le ore della sera quando tutti se ne vanno fuori e lei se ne può restare in santa pace in poltrona a dilettarsi con il suo cucito e a sorseggiare il suo Porto.
In questo luogo che suscita emozioni contrastanti e piccoli tumulti dell’anima:

“Uno strano sentimento, venato di tristezza, ti assale quando entri in una stanza che ti sussurra i ricordi di una lunga serie di anni.”

In questo luogo dove si diventa grandi e nei giorni della giovinezza si aprono spiragli inaspettati sul futuro:

“Mary aveva sempre considerato la vita qualcosa che iniziava prima che te ne rendessi conto e poi andava avanti senza scosse finché morivi: non aveva mai saputo che potesse finire e poi ricominciare, così splendida.”

Ho amato ogni riga di questo romanzo.
Ho amato lo stile garbato, asciutto ed elegante.
Ho amato la vena britannica che attraversa ogni pagina di questa storia come un raggio di luce.
Ho amato la semplicità, a volte persino prevedibile, vera e credibile.
Ho amato la sensazione di serenità che si assapora leggendo il romanzo di Sherriff, si resta a Bognor Regis con questa piacevole compagnia alla quale è davvero facile affezionarsi.
E così anche a noi lettori rimane salda nel cuore un sorta di inspiegabile nostalgia per quel tempo trascorso in quella quiete, per quelle memorabili due settimane in settembre.

“Una vacanza è così. I primi giorni indugiano quasi interminabili. Verso sera il sole si posa dentro una conca tra le colline e rimane li, ostinato, a sfidare la notte. Domenica, lunedì, martedì: ti sembra di essere al mare da settimane intere.”