Autobiografia di Mark Twain

Inoltre, questa mia autobiografia non sceglie gli avvenimenti più spettacolari della mia vita, ma tratta semplicemente delle esperienze comuni di cui è fatta la vita dell’essere umano medio perché sono quelle le vicende con cui ha dimestichezza nella vita, in cui vede riflessa e stampata la propria vita.

Ecco così le memorie di Samuel Langhorne Clemens, noto al mondo con il nom de plume di Mark Twain: la sua Autobiografia da pubblicare cento anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore è edita in Italia da Donzelli Editore.
Mr Clemens va del tutto a ruota libera, portando il lettore nel suo tempo in una sequenza interminabile di ricordi d’infanzia, eventi ed incontri, piccoli incidenti ed esilaranti aneddoti che la penna sagace dell’autore sa rendere incisivi e speciali.
In questo libro c’è l’America del suo tempo con i suoi protagonisti e anche diversi fatti di cronaca, ci sono i viaggi e le conferenze e Mr Clemens ci porta generosamente con lui.
E naturalmente c’è lo scrittore con la sua vita e con i suoi romanzi, se amate i libri di Twain troverete tra queste pagine la meraviglia dell’intreccio tra la realtà e l’immaginazione.
Ad esempio, ecco la madre dello scrittore nelle parole del figlio:

Mia madre non usava mai parole difficili, ma aveva il dono naturale di far compiere il lavoro a quelle facili. Visse fino quasi a novant’anni, in grado di usare la lingua fino alla fine – specialmente quando una meschinità o un’ingiustizia le accendeva lo spirito. Mi è capitata sotto mano parecchie volte nei miei libri, dove figura come la Zia Polly di Tom Sawyer.

Non è il solo personaggio letterario sul quale Twain rivela la fonte di ispirazione, in un mosaico nel quale vita e letteratura paiono incastrarsi e sovrapporsi perfettamente.
In questo volume corposo e variegato di oltre 450 pagine la parte a me più cara è proprio quella della dimensione domestica di casa Clemens dove si coglie la profondità degli affetti e l’autentica semplicità di questi legami.
E sono commoventi le parole dedicate alla rimpianta moglie Livy, Twain la ricorda nel trentaseiesimo anniversario di matrimonio quando lei è ormai mancata da un anno e otto mesi.
Eppure in qualche modo lei è ancora lì, viva e presente: fanciullesca, leale, caritatevole.

Aveva la risata dal cuore libero di una ragazza. Capitava di rado, ma quando si infrangeva sulle orecchie era ispiratrice come la musica.”

E quando si leggono righe come queste non sembra neanche di tenere un libro tra le mani, pare di essere lì, a casa Clemens, ad ascoltare un racconto di famiglia.
La vita dei Clemens, come spesso accadeva all’epoca, fu segnata da gravi perdite: il primo dei quattro figli della coppia visse appena 22 mesi, la figlia Susy morì invece tragicamente di meningite all’età di 24 anni.
I ricordi del padre riportano tra queste pagine quei dolori e la fatica di fronteggiarli, le sue parole si mescolano poi a quelle della biografia del padre scritta da Susy a partire dal 1885 quando l’autore aveva 50 anni.
Nostalgia, memorie, ricordi.
Le bambine dei Clemens davano sempre una mano alla mamma a rivedere i romanzi di papà: si mettevano comode in veranda e la mamma leggeva ad alta voce con la matita in mano in un particolare rito famigliare.
Memorie ed incontri, ad esempio con lo scrittore Lewis Carroll: dell’autore del libro Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie Twain rammenta in particolare di averlo trovato silenzioso e timido.
Aneddoti, incidenti e il consueto tagliente umorismo di Mark Twain.
Perché, ricordiamocelo bene, Twain è uno capace di farti venire le lacrime agli occhi dal ridere nel raccontarti i mille modi di sbagliare un indirizzo o piuttosto di tentare di indovinarlo, a tal proposito sappiate che la moglie collezionava tutte le buste inviate dagli ammiratori di Twain con gli indirizzi più improbabili.
E poi il nostro sa farti restare di buonumore per una giornata intera al solo pensiero di quella volta in cui venne ricevuto alla Casa Bianca recando con sé un particolare biglietto scritto con cura dalla moglie.
Vorrei concludere questa mia modesta presentazione di questo libro con un sincero e affettuoso ringraziamento a Mark Twain per averci regalato le sue memorie e le sue parole.
Oltre il tempo, con la consueta saggezza e la solita ironia.

In questa autobiografia terrò in mente il fatto che sto parlando dalla tomba. Sto letteralmente parlando dalla tomba perché quando il libro sarà uscito dalla tipografia sarò morto. In ogni caso – per essere preciso – diciannove ventesimi del libro non vedranno la stampa prima della mia morte. Parlo dalla tomba, piuttosto che a viva voce, per una buona ragione: da lì posso parlare liberamente.

Tre sorelle in bianco (per non parlar del cane)

Loro sono tre, furono così ritratte in un giorno del passato e della loro giovinezza, scorgo una certa somiglianza tra di loro e così ho immaginato che fossero tre sorelle.
Un candore impalpabile nei loro abiti, aggraziata gentilezza nei gesti e nella posa.
Pensieri vaghi, respiri trattenuti e sorrisi velati di timidezza.

E questa fermezza nello sguardo, sono occhi scuri e grandi i suoi.
Una collana con il ciondolo e una grazia impareggiabile.

Le altre due giovani stringono fiori tra le dita.

E tutte portano vaporosi abiti bianchi e scarpe bianche vezzosamente chiuse con un fiocco setoso.

E i loro cappelli!
Ampi, eleganti e di rara raffinatezza.
Un guizzo negli occhi, le labbra socchiuse, la dolcezza della gioventù.

E una mano sotto il mento, l’espressione saggia e pensierosa, un sorriso garbato e composto, proprio come si conviene.

Il titolo di questo post, come molti di voi avranno certamente già compreso, si ispira scherzosamente ad un capolavoro della letteratura inglese, uno dei miei romanzi preferiti: Tre uomini in barca (per non parlar del cane) di Jerome Klapka Jerome.
Le nostre tre gentili signorine, infatti, non erano sole in questa fotografia.
Insieme a loro c’era anche il loro fido amico a quattro zampe, pure lui candido candido come gli abiti delle giovani donne, sembra un tipo di buon carattere e una buona compagnia per le passeggiate rigeneranti.
E così, da un passato lontano, ho riportato qui questi sguardi: tre sorelle in bianco (per non parlar del cane).

Cesare Pavese a proposito di Genova

“Certo, quando gli raccontavo cos’è il porto di Genova e come si fanno i carichi e la voce delle sirene delle navi e i tatuaggi dei marinai e quanti giorni si sta in mare lui mi ascoltava con gli occhi sottili.”

La luna e i falò

Cesare Pavese (9 settembre 1908 – 27 agosto 1950)

I fratelli Lamb

“Uno dei passeggeri sulla carrozza per Stratford aveva avuto l’imprudenza di chiedergli: « Qual è dunque la vostra occupazione, signore?» Dopo averlo fissato per un istante in silenzio, Samuel Ireland aveva risposto: «Mi occupo del mestiere di vivere, caro signore.» ”

Raffinato, elegante, fortemente evocativo e squisitamente british, ecco un romanzo che delizierà gli amanti della letteratura inglese e gli estimatori della terra di Albione.
I fratelli Lamb è un raffinato romanzo storico scritto dall’ineffabile Peter Ackroyd ed edito in Italia da Neri Pozza.
Ackroyd, uno dei massimi autori britannici, offre uno spaccato straordinario della Londra del passato portando il lettore nel lontano 1795.
I protagonisti del suo volume sono persone realmente vissute: si tratta infatti dei fratelli Charles e Mary Lamb, entrambi autori di romanzi ed opere letterarie.
E tuttavia l’autore avverte il lettore: ha inventato personaggi e modificato le vicende della famiglia Lamb per amore della narrazione.
Per amore della narrazione: arte della quale Ackroyd è incomparabile maestro.

Dunque, la vicenda del romanzo è tanto semplice quanto intrigante.
Il giovane Charles Lamb lavora per la Compagnia delle Indie ma aspira a divenire un celebre scrittore, la sorella Mary condivide con lui l’amore per la poesia e la letteratura, lei è una ragazza dal viso segnato dal vaiolo e vive per lo più nell’ambiente domestico.
Per un caso del destino i due fratelli Lamb si imbattono nel giovane William Ireland, libraio con il padre Samuel a Holborn Passage.
E sapete qual è la circostanza stupefacente?
Il giovane Ireland ha scoperto per ventura alcuni manoscritti di William Shakespeare e l’emozione per tutti loro è davvero incredibile!
Sui manoscritti e sulle presunte opere shakespeariane non vi svelerò nulla di più, sappiate comunque che il colpo di scena è sempre dietro l’angolo e che anche Ireland è realmente esistito.
Questo romanzo ha il profumo della carta e degli antichi manoscritti, vi è inoltre ancora una protagonista fondamentale e nessuno come Ackroyd è capace di narrarla in tale maniera nei nostri tempi: la città di Londra.
È una città a volte fosca, caotica, complicata, per le sue vie si muovono carri e calessi, in questa Londra si incontrano poi personaggi particolari:

“Jonathan Baker era un omino tarchiato dall’aria completamente esausta, con la bocca ripiegata verso il basso e le palpebre pesanti. A Samuel Ireland sembrò una sorta di Pantalone appena uscito da una commedia. Si presentò nell’ufficio con un bizzarro berretto a punta di datazione incerta.”

E i luoghi di Londra, poi, sono descritti in maniera indimenticabile:

“Il palco Amleto odorava di paglia fradicia, cordiale alla liquerizia e ciliegie. L’odore dei teatri di Londra. A William piaceva quell’odore e si sentiva inebriato dai profumi di essenze e unguenti che si levavano a ondate dalla platea eccitata e mormorante.”

In ogni riga di questo romanzo emerge, netto ed evidente, il talento narrativo di Ackroyd e spicca la sua innata capacità di affascinare e coinvolgere in maniera totalizzante i suoi lettori.
Su ogni evento descritto tra le pagine del libro aleggia la figura misteriosa di William Shakespeare, il Bardo è a suo modo anch’egli uno dei protagonisti del romanzo I fratelli Lamb.
Adorato, amato, riletto, i suoi versi sono mandati a memoria e per sempre immortali.
E le sue opere, all’improvviso divengono persino palpabili.
Ecco la sua calligrafia, ecco le sue maniere di scrivere, ecco i personaggi riconoscibili e ritrovati in certi manoscritti davvero straordinari: un’emozione destinata a mutare il destino di certe vite.

“Dunque Shakespeare aveva tenuto quel libro fra le mani… proprio come stava facendo lui in quel momento. L’assoluta reciprocità del gesto gli diede il capogiro.”

Uno di quei giorni di marzo

It was one of those March days when the sun shines hot and the wind blows cold: when it is summer in the light, and winter in the shade.

Era uno di quei giorni di marzo in cui il sole splende caldo e il vento soffia freddo: quando è estate nella luce e inverno nell’ombra.

Charles Dickens – Great expectations


Via di Ravecca

Due sulla torre

“I dolci occhi scuri che sollevò verso di lui quando entrò – grandi e malinconici più per la circostanza che per loro caratteristica personale – suggerivano un temperamento caldo e affettuoso, forse leggermente sensuale, che languiva per la mancanza di qualcosa da fare, da amare o per cui soffrire.”

Così si presenta Viviette Constantine, tormentata eroina scaturita dal mirabile talento di Thomas Hardy e protagonista del romanzo Due sulla torre risalente al 1882 e pubblicato in Italia da Fazi Editore.
L’inquieta Viviette, elegante signora quasi trentenne, vive a Welland House, la sua bella dimora nella campagna del placido Wessex.
È insoddisfatta Viviette, il suo destino finisce così per incrociarsi con quello di Swithin St. Cleeve, un giovane di ben diversa estrazione sociale e inoltre più giovane di lei di ben nove anni.
All’epoca della sua pubblicazione il romanzo si attirò l’accusa di essere contrario alla morale ed è lo stesso Hardy a scrivere nella prefazione che il suo libro venne considerato “sconveniente”, questo naturalmente secondo i canoni della società vittoriana ben distanti dai nostri.
La storia si dipana con garbo e delicatezza alzando il velo sull’esistenza di questa donna, moglie del dispotico Sir Blount Constantine che se ne è partito per l’Africa seguendo “la mania della caccia al leone” e strappando alla giovane sposa la promessa di vivere in solitudine fino al suo ritorno e di evitare balli ed eventi mondani.
E lei così si adegua alla sua situazione rinunciando anche a certe piccole gioie fino al giorno in cui scopre, inaspettatamente, di essere rimasta vedova.
Viviette conosce ormai già da diverso tempo il giovane Swithin del quale si è innamorata con facilità: lui è un giovane ricco di talenti e di speranze, studia appassionatamente astronomia e desidererebbe diventare astronomo reale.
E compie quei suoi studi nella torre di proprietà dei Constantine, proprio quel luogo diverrà scenario dei molti incontri tra Swithin e Viviette.

Lei lo aiuta, lo sostiene, lo segue in quella meraviglia che è la scoperta del cielo.
E ascolta e impara, si emoziona, ogni giorno il suo cuore batte più forte per lui e per i suoi ideali e il giovane la ricambia con gratitudine, devozione e trasporto.
La trama bellissima, delicata e avvincente, è ricca di tensioni e di diversi equilibri, a mio parere sarebbe perfetta per una trasposizione cinematografica, leggendo le pagine così sapientemente scritte da Thomas Hardy nella mente appare la figura di Viviette e con lei si scoprono tutti i protagonisti che ruotano attorno alla sua vicenda.
Ad esempio, guardate che curioso incidente capita a una fanciulla di nome Tabitha Lark nel silenzio della chiesa locale durante una funzione religiosa:

“Era in corso il sermone e il giovane addetto al mantice si era addormentato sui manici dello strumento. Tabitha tirò fuori il fazzoletto, con l’intenzione di svegliarlo sventolandoglielo davanti. Insieme al fazzoletto ruzzolò fuori un’intera serie di oggetti sorprendenti: un ditale d’argento, una fotografia, un piccolo portamonete, una bottiglietta di profumo, alcune monetine sciolte, nove chicchi di uva spina, una chiave.”

È una descrizione semplice e assolutamente straordinaria, del resto un grande scrittore sa fare proprio questo: ti lascia davanti agli occhi l’indimenticabile immagine di una fanciulla imbarazzata e ti fa sentire il rumore lieve di tutti quegli oggettini che cadono a terra.
Non vi svelerò i dettagli della personale ricerca della felicità di Viviette, questa è una storia ricca di colpi di scena, di sotterfugi, di notizie impreviste, di dubbi e piccoli indizi, di oggetti perduti, di viaggi, di tradimenti e di tentativi di pianificare l’esistenza proprio come vorrebbero le regole della società.
Al di là di tutto questo, davanti allo sguardo e nel fondo dell’animo, si staglia lucente e assoluto il desiderio di raggiungere l’autentica felicità e di toccarla, preservarla e viverla con tutta l’intensità della quale si sa essere capaci, con la disperata bellezza del sentimento di Viviette che palpita nutrito dalla speranza e dall’infinita meraviglia che suscita in lei il suo amato e geniale Swithin.

“Le labbra dischiuse erano labbra che parlavano, non d’amore ma di milioni di miglia; ed erano occhi, quelli, che non guardavano nelle profondità degli occhi altrui ma in altri mondi.”

Quanti cieli

“La nostra è un’epoca essenzialmente tragica, così ci rifiutiamo di viverla tragicamente. C’è stato un cataclisma, siamo tra le rovine, incominciamo a costruire nuovi piccoli habitat, ad avere nuove piccole speranze. È un lavoro piuttosto duro; adesso non c’è una strada scorrevole che porti al futuro: bisogna scavalcare gli ostacoli o aggirarli.
Dobbiamo vivere, non importa quanti cieli ci siano crollati addosso.”

David Herbert Lawrence – L’amante di Lady Chatterley (1928)

Perduti, amati e ritrovati

Perduti, amati e ritrovati: i libri, i nostri libri.
Alcuni magari li hai lasciati indietro, in un tempo nel quale ti riconoscevi in certe parole che parevano scritte apposta per te e così all’epoca li avevi sottolineati in più parti, ti aveva persino punto vaghezza di trascrivere alcune righe su un quadernetto da conservare per i momenti bui.
Perché magari non lo sai ma, prima o poi, un libro finisce per ritrovarti.
La memoria di quella lettura resta in un luogo nascosto della mente e ancora ritorna, seppur vaga e confusa, si ripresenta nel momento in cui la tua anima ha sete di bellezza, conforto o immaginazione.
Così vai a cercare tra i tuoi libri perduti, amati e ritrovati e tra le pagine ritrovi anche quell’emozione già vissuta o forse finisci per scoprirne una nuova e del tutta diversa.
Perduti e ritrovati, mai dimenticati: come i grandi amori, in fondo.
E unici, sempre, perché ogni lettore è un libro diverso e questa è una delle parti più intriganti della magia della lettura.

Pensate alle miriadi di nomi di coloro che popolano le pagine dei vostri libri.
Da Giulietta Capuleti a Dorian Gray, da Madame Bovary a Oliver Twist, giusto per citarne alcuni: ognuno di noi immaginerà i volti di queste persone in maniera differente e per ciascuno sarà un diverso gioco di fantasia.
Siamo condotti a quel viso grazie alle parole dello scrittore eppure siamo soltanto noi a rendere reali queste figure e a saperle vedere alla nostra particolare maniera e nessuno al mondo mai le immaginerà come abbiamo fatto noi.
Se ci pensate, questo è straordinario.
Perduti, amati e ritrovati: quei libri che ti accompagnano da sempre e neppure sai quando li hai incontrati la prima volta.
Perduti, amati e mai abbandonati perché sarebbe molto difficile restituire il senso alle cose e farlo nostro se non potessimo ritrovarci nei versi di una poesia, nel frammento di uno scritto di un tempo lontano, nelle emozioni di un personaggio letterario.
Perduti, amati e ritrovati, i nostri libri che ci sono sempre stati, in ogni respiro delle nostre giornate.

E se amo anche i libri è perché in fin dei conti i libri sono parte del mondo come le donne, gli alberi, le bestie, i fiori, i poeti, le fabbriche, le stelle e questa mia meravigliosa lettera.”
Cesare Pavese, 1927
Lettere 1924-1944 Einaudi 1966