Autobiografia di Mark Twain

Inoltre, questa mia autobiografia non sceglie gli avvenimenti più spettacolari della mia vita, ma tratta semplicemente delle esperienze comuni di cui è fatta la vita dell’essere umano medio perché sono quelle le vicende con cui ha dimestichezza nella vita, in cui vede riflessa e stampata la propria vita.

Ecco così le memorie di Samuel Langhorne Clemens, noto al mondo con il nom de plume di Mark Twain: la sua Autobiografia da pubblicare cento anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore è edita in Italia da Donzelli Editore.
Mr Clemens va del tutto a ruota libera, portando il lettore nel suo tempo in una sequenza interminabile di ricordi d’infanzia, eventi ed incontri, piccoli incidenti ed esilaranti aneddoti che la penna sagace dell’autore sa rendere incisivi e speciali.
In questo libro c’è l’America del suo tempo con i suoi protagonisti e anche diversi fatti di cronaca, ci sono i viaggi e le conferenze e Mr Clemens ci porta generosamente con lui.
E naturalmente c’è lo scrittore con la sua vita e con i suoi romanzi, se amate i libri di Twain troverete tra queste pagine la meraviglia dell’intreccio tra la realtà e l’immaginazione.
Ad esempio, ecco la madre dello scrittore nelle parole del figlio:

Mia madre non usava mai parole difficili, ma aveva il dono naturale di far compiere il lavoro a quelle facili. Visse fino quasi a novant’anni, in grado di usare la lingua fino alla fine – specialmente quando una meschinità o un’ingiustizia le accendeva lo spirito. Mi è capitata sotto mano parecchie volte nei miei libri, dove figura come la Zia Polly di Tom Sawyer.

Non è il solo personaggio letterario sul quale Twain rivela la fonte di ispirazione, in un mosaico nel quale vita e letteratura paiono incastrarsi e sovrapporsi perfettamente.
In questo volume corposo e variegato di oltre 450 pagine la parte a me più cara è proprio quella della dimensione domestica di casa Clemens dove si coglie la profondità degli affetti e l’autentica semplicità di questi legami.
E sono commoventi le parole dedicate alla rimpianta moglie Livy, Twain la ricorda nel trentaseiesimo anniversario di matrimonio quando lei è ormai mancata da un anno e otto mesi.
Eppure in qualche modo lei è ancora lì, viva e presente: fanciullesca, leale, caritatevole.

Aveva la risata dal cuore libero di una ragazza. Capitava di rado, ma quando si infrangeva sulle orecchie era ispiratrice come la musica.”

E quando si leggono righe come queste non sembra neanche di tenere un libro tra le mani, pare di essere lì, a casa Clemens, ad ascoltare un racconto di famiglia.
La vita dei Clemens, come spesso accadeva all’epoca, fu segnata da gravi perdite: il primo dei quattro figli della coppia visse appena 22 mesi, la figlia Susy morì invece tragicamente di meningite all’età di 24 anni.
I ricordi del padre riportano tra queste pagine quei dolori e la fatica di fronteggiarli, le sue parole si mescolano poi a quelle della biografia del padre scritta da Susy a partire dal 1885 quando l’autore aveva 50 anni.
Nostalgia, memorie, ricordi.
Le bambine dei Clemens davano sempre una mano alla mamma a rivedere i romanzi di papà: si mettevano comode in veranda e la mamma leggeva ad alta voce con la matita in mano in un particolare rito famigliare.
Memorie ed incontri, ad esempio con lo scrittore Lewis Carroll: dell’autore del libro Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie Twain rammenta in particolare di averlo trovato silenzioso e timido.
Aneddoti, incidenti e il consueto tagliente umorismo di Mark Twain.
Perché, ricordiamocelo bene, Twain è uno capace di farti venire le lacrime agli occhi dal ridere nel raccontarti i mille modi di sbagliare un indirizzo o piuttosto di tentare di indovinarlo, a tal proposito sappiate che la moglie collezionava tutte le buste inviate dagli ammiratori di Twain con gli indirizzi più improbabili.
E poi il nostro sa farti restare di buonumore per una giornata intera al solo pensiero di quella volta in cui venne ricevuto alla Casa Bianca recando con sé un particolare biglietto scritto con cura dalla moglie.
Vorrei concludere questa mia modesta presentazione di questo libro con un sincero e affettuoso ringraziamento a Mark Twain per averci regalato le sue memorie e le sue parole.
Oltre il tempo, con la consueta saggezza e la solita ironia.

In questa autobiografia terrò in mente il fatto che sto parlando dalla tomba. Sto letteralmente parlando dalla tomba perché quando il libro sarà uscito dalla tipografia sarò morto. In ogni caso – per essere preciso – diciannove ventesimi del libro non vedranno la stampa prima della mia morte. Parlo dalla tomba, piuttosto che a viva voce, per una buona ragione: da lì posso parlare liberamente.

Il tempo delle Fiabe Sonore

Tutti quelli che sono stati bambini negli anni ‘70 hanno ancora una musichetta che gira per la testa, era una canzoncina che faceva proprio così:

A mille ce n’è
nel mio cuore di fiabe da narrar,
venite con me,
nel mio mondo fatato per sognar,
non serve l’ombrello,
il cappottino rosso, la cartella bella
per venir con me,
basta un po’ di fantasia e di bontà.

Le nostre amate Fiabe Sonore, come dimenticarle!
Erano per noi un momento di entusiasmante felicità: un libro illustrato con il testo della fiaba, un 45 giri e un mondo magico nel quale immergersi completamente.
Bastava un semplice mangiadischi colorato e partivano così quelle note ancora così care.

Quei libretti, erano poi impreziositi da magnifici disegni, le Fiabe Sonore vibravano nel loro universo incantato di creature meravigliose e sorprendenti: bimbetti avventurosi e principesse delicate, orfanelle intrepide e principi azzurri, c’erano foreste, laghi, castelli, casette nel bosco.
E incantesimi, magie, sassolini lasciati per terra per ritrovare la strada di casa, mele stregate, casette di zucchero e acciarini magici, nel mondo delle fiabe tutto precipita e poi si risolve, nel mondo delle fiabe gli animi nobili e i cuori generosi, alla fin fine, vengono sempre ricompensati.
Una su tutte era la mia fiaba prediletta, in passato ho già avuto modo di scriverlo: ho sempre avuto un debole per I fiori della Piccola Ida, quei fiori che tutti eleganti se ne andavano ogni sera spensierati a ballare.
Amavo la fiaba dei cigni selvatici e quella dei sette corvi, Pelle d’Asino e la Guardiana di oche, noi ascoltavamo queste vicende infinite volte e non ci annoiavamo mai.
Ogni tanto, ai mercatini, mi capita di trovare le Fiabe Sonore.
È un’eredità preziosa, secondo me.
E sapete come la penso?
Credo che quei volumi usati conservino tra quelle pagine anche i nostri lontani stupori, la meraviglia dell’infanzia, la gioia della scoperta e delle mille avventure di questo mondo incantato.
Anche da grande, come molti di voi, io non ho mai smesso di leggere le fiabe, è una magia che sempre ritorna e non ha mai fine.
E d’altra parte di ricordate come proseguiva la canzoncina al termine di ogni Fiaba Sonora?
Quel motivetto faceva così e noi non possiamo certo dimenticarlo.

Finisce così
questa favola breve se ne va.
Ma aspettate, e un’altra ne avrete.
“C’era una volta …” il cantafiabe dirà
e un’altra favola comincerà!

La cucina inglese di Miss Eliza

“Non le rispondo, perché sto pensando ad altro… alle spezie esotiche che arrivano ogni giorno dalle Indie Orientali e dalle Americhe, alle casse di arance dolci e ai limoni aspri della Sicilia, alle albicocche della Mesopotamia, all’olio d’oliva di Napoli, alle mandorle del Gargano…”

Profumi e aromi così si mescolano tra le pagine di questo libro delizioso e squisitamente britannico in ogni suo accento.
La cucina inglese di Miss Eliza di Annabel Abbs edito da Einaudi è un’opera di finzione che si ispira alle figure di Eliza Acton, poetessa e scrittrice di libri di cucina e di Ann Kirby che fu la sua aiutante.
La Acton, in collaborazione con la Kirby, pubblicò nel 1845 il volume Modern Cookery for Private Families divenuto poi famoso come il più importante libro di cucina inglese mai pubblicato.
Il romanzo della Abbs è una lettura molto gradevole e offre un interessante sguardo sulla condizione femminile in quell’ottocento inglese nel quale le donne si affannavano per trovare un loro ruolo e per rivendicare i propri diritti.
Al principio della storia la trentaseienne Eliza ha certe aspirazioni letterarie: vorrebbe pubblicare un libro di poesie ma i casi del destino e le necessità del quotidiano la condurranno a compiere altre scelte.
E così, con la madre, avvia nel Kent una piccola pensione nella quale prenderà a lavorare come sguattera la giovane Ann che ha appena 17 anni e una famiglia piena di guai.
Inizia così un percorso che vedrà le due donne condividere molti giorni delle loro vite e un nuovo sogno da realizzare con caparbia: il libro di cucina di Miss Eliza.

Le parola di Eliza e Ann, come le loro vite, si intrecciano e si alternano: un capitolo è narrato da Eliza e quello successivo da Ann, ogni capitolo ha poi come titolo una ricetta che entrerà a far parte del leggendario libro di Eliza.
Eliza con il tempo accrescerà le sue competenze e Ann, timidamente, scoprirà il suo amore autentico per la cucina.
E quelle loro ricette sono davvero come poesie semplici e preziose: gelatina di mele selvatiche, amaretti ai fiori d’arancio, pane tostato con sedano e burro, composta di prugnoli da siepe con panna addensata.
La cucina è arte ed è uno dei linguaggi dell’affetto, in fin dei conti.
Scritto con grazia e con il dovuto garbo il romanzo della Abbs mette in luce la difficile vita delle donne sempre dibattute tra famiglia e autodeterminazione, in un mondo che non concede loro molti spazi.
L’amore, i doveri, la maternità, il matrimonio come via d’uscita, la necessità di trovare un equilibrio: Miss Eliza farà delle scelte inconsuete e insolite e seguirà quel desiderio ormai divenuto ragione di vita.

“Penso al mio libro – al nostro libro, perché è tanto mio quanto di Ann – e immagino come sarà la sensazione di averlo tra le mani.
Lo vedo nelle cucine, macchiato di burro e farina, tutto appiccicoso di zucchero e frutta, pieno di ditate e con chiazze di olio e di sangue, le incrostazioni crepate e lucenti del bianco d’uovo.”

E segue la sua natura fiera di donna autonoma perfettamente compresa da Ann che usa parole semplici e chiare per descrivere la ferrea volontà di Eliza.

“Vuole poter avere i suoi soldi e non quelli che le dà un uomo. Non vuole avere gente che le dice cosa fare.”

Scorrevole, elegante, molto efficace nelle descrizioni, il libro della Abbs mi ha piacevolmente intrattenuta e nella sua trama non mancano sorprese e inattesi colpi di scena.
Pagina dopo pagina non si può che solidarizzare con queste donne tenaci e testarde, a volte molto provate dalla vita che riescono con la loro forza e con la loro costanza a superare molte difficoltà.
Trovandosi insieme, in un luogo speciale, tra i profumi delle spezie, dove è custodito il sogno immenso di Eliza e Ann.

“Prendete una cucina spaziosa, dico tra me e me, aggiungete un bel fuoco vivace e dieci padelle di rame ben rivestite, versatevi dentro cinque stampi, sette cucchiai di legno, un buon servizio di lame d’acciaio, e un’aiutante brava e fedele. Cospargete il tutto con una varietà di filtri per salsine, spolverini, setacci, colini, pinze, mattarelli, taglieri e pennelli da pasticceria…”

La malizia del vischio

“Il Natale non è Natale senza la famiglia.”

Ed è la vigilia del 25 Dicembre, nella dimora del Sussex dell’anziana Rachel dove si apprestano a riunirsi i componenti di questa complicata famiglia inglese.
Non lasciatevi ingannare dalla zuccherosa citazione, peraltro fortemente evocativa delle atmosfere natalizie di casa March nel celebre Piccole Donne, a casa di Rachel tira tutta un’altra aria e i giorni di Natale, periodo nel quale si dipana la vicenda di questo romanzo, diventano il tempo della resa dei conti.
La malizia del vischio è un romanzo ironico, tagliente e sapientemente disincantato opera della penna arguta di Kathleen Farrell e ambientato in un imprecisato anno del dopoguerra.
Dato alle stampe per la prima volta nel 1951, è ora pubblicato in Italia da Fazi Editore.

E mentre il fuoco crepita nel caminetto, uno ad uno giungono i componenti di questa famiglia.
Ci sono Marion e Adrian, i figli di Rachel, ognuno dei due spicca per alcune mancanze agli occhi della madre, donna volitiva, assertiva e di carattere.
Ci sono le giovani Kate e Bess, quest’ultima vive con Rachel ma sogna una vita diversa e libera e nutre un certo trasporto per il cugino Piers, un giovane uomo molto centrato su se stesso.
Brioso, vivace ed elegante, il romanzo si incentra sulle quotidiane crudeltà della vita, sui sottintesi e sui malintesi, sulle parole non dette capaci di lacerare i cuori e di mutare il corso delle esistenze.
La Farrell ha una scrittura dallo stile asciutto ed efficace e si avvale volentieri di dialoghi serrati, il suo romanzo ha così una struttura piacevolmente scorrevole e si legge davvero in un soffio.
E molto spesso traspare, nelle sensazioni e nelle affermazioni, un senso di ineluttabile impermanenza.
Lo si coglie, ad esempio, in queste parole di Marion:

“Dovremmo tutti impiegare al meglio le nostre serate e le nostro giornate.. Dovremmo riempire ogni minuto perché non ce ne saranno saranno a sufficienza per nessuno.”

Oppure in quelle di Rachel:

“Ricordava quando, da ragazza, era lei a decorare l’albero ma faceva fatica a rievocare la felicità che provava allora, la sensazione che tutto andasse bene, che tutto fosse certo. Razionalmente aveva sempre saputo che niente sarebbe durato, ma nel profondo del cuore non ci aveva mai creduto.”

O anche nella spavalda arroganza di Piers:

“Possedeva poche cose, ed era fiero di aver imparato ad abbandonare tutto e allontanarsi senza provare rimpianto per quello che lasciava, che fossero persone, vestiti o oggetti personali. Laddove altri riempivano le loro esistenze lui restava libero.”

Bess che invece è ancorata ad una vita tranquilla, monotona e senza turbamenti finirà lei stessa per ricercare una sorta di instabilità che le doni emozioni a lei ancora sconosciute.
Emergono improvvise fragilità e sopite insicurezze, vengono a galla con i ricordi e così, mentre Rachel racconta alcune sue memorie del tempo della giovinezza e di un suo amore vissuto a Copenaghen la figlia Marion ascolta in silenzio ma dentro di lei ribolle un malcelato risentimento e un senso di incompresa inadeguatezza:

Che malriposta tenerezza, pensò Marion. Di rado mi ha rivolto una parola gentile, mia madre, men che meno una frase, ed eccola con gli occhi lucidi che romanticheggia su un posto che non vede da più di quarant’anni e di cui ricorda solo un bel giovane.”

Vivere a volte è tutta una questione di equilibri mancati, come accade tra le pagine del romanzo La Malizia del Vischio.
Ed è il tempo del Natale, tra scatole di frutta candita e posacenere d’argento, mentre si sorseggia garbatamente lo sherry come se la vita sapesse essere davvero dolce come le sue promesse.

Nuove abitudini

“Quando un uomo va in pensione e il tempo non è più una faccenda urgente e importante, di solito i colleghi gli regalano un orologio. Ma quella involontaria ironia è bilanciata da una pertinenza altrettanto involontaria, perché anche se non è più dominato da ore e minuti, un uomo in pensione desidera molto spesso sapere che ora è.”

E difatti è ciò che accade al Signor Tom Baldwin: dopo aver lavorato per 40 anni in un ufficio della City finalmente anche per lui è giunto l’agognato tempo della pensione e, come di rito, anche a lui i colleghi hanno regalato un orologio.
Mirabile rappresentante di una banale e al contempo affascinante normalità, il Signor Baldwin è il protagonista di Nuove abitudini, romanzo ambientato nell’Inghilterra degli anni ‘30 e scritto da Robert Cedric Sherriff nel 1936.
Il romanzo, pubblicato in Italia da Fazi Editore, segue lo stile e l’eleganza di Due settimane in settembre, altro godibile gioiello letterario di Sherriff proposto dalla medesima casa editrice.
Dunque, torniamo al signor Baldwin e alle sue spinose faccende quotidiane: dovete sapere che lui non vedeva l’ora di raggiungere l’agognato traguardo della pensione ma, adesso che ci si trova in mezzo, la questione pare assumere un ben diverso sapore.

“Era molto piacevole avvertire attorno a sé il lieve alito del tempo libero, ma non si sentiva del tutto a suo agio. La sera prima aveva chiuso la porta sul passato e rivolto il viso verso il futuro, ma quella mattina stava cominciando a scoprire che la porta si incurvava in malo modo, e le cose che aveva avuto intenzione di chiudere fuori si stavano insinuando attraverso le fessure.”

La vita è un gioco di miracolosi equilibri, un preciso mosaico di sensazioni e di usanze quotidiane: se sposti un solo tassello tutto quanto sembra andare irrimediabilmente all’aria!
Lo sa bene anche Edith, la moglie del signor Baldwin, che all’improvviso si ritrova il signor Baldwin per casa, tra l’altro lui ha pure preso il vizio di occupare la poltrona preferita di Edith proprio negli orari in cui lei ama rilassarsi in santa pace.
La Signora Baldwin è molto combattuta, sa che il suo Tom si è guadagnato il meritato riposo e tuttavia nutre una sorta di malcelata e inaspettata insoddisfazione.

«Nonostante tutta la gioia della loro vita in comune, quel giorno Edith capiva con una chiarezza mai sperimentata in passato che tale gioia si basava su un regolare e quotidiano periodo di reciproca lontananza».

Elegante, raffinato, deliziosamente ironico, questo romanzo di Sherriff è scritto con una straordinaria lievità capace di rendere ogni pagina assolutamente godibile.
Seguendo la loro vita semplice con i suoi ostacoli quotidiani, piano piano ci si affeziona ai coniugi Baldwin e si prova un senso di autentica gratitudine per aver potuto percorrere insieme a loro un tratto della loro vita ed è il talento di Sherriff a rendere possibile tale insolita sensazione.
Riuscirà il Signor Baldwin a raccogliere il filo del suo destino e sbrogliare la matassa della sua quotidianità?
A dire il vero lui qualche progetto ce l’ha: a 58 anni si è messo in testa di diventare uno storico ma sarà proprio questa la via da seguire?
Il passato mostrerà ai coniugi Balwin quali nuovi abitudini ha in serbo per loro il futuro e non svelerò di più, lasciandovi il piacere di scoprire le piccole avventure di vite normali.
E vi parrà di essere anche voi là, accanto al Signor Baldwin che cerca di far quadrare i conti per realizzare i suoi progetti mentre Edith lo incoraggia e lo sostiene.
È la straordinaria bellezza della normalità, narrata con lo stile garbato e inconfondibile di Robert Cedric Sherriff.

“I momenti migliori ci travolgono così all’improvviso che l’aspettativa non ha la possibilità di annacquare il piacere della realtà e passano così in fretta che nemmeno la realtà ha la possibilità di scavare i suoi buchi sgradevoli nei ricordi che restano.”

Sogni

“We all have our time machines, don’t we. Those that take us back are memories… And those that carry us forward, are dreams.”

“Tutti noi abbiamo le nostre macchine del tempo, non è vero? Quelle che ci portano indietro sono le memorie e quelle che ci portano avanti sono i sogni.”

H. G. Wells

Via Cairoli – Genova

Gabriële

Gabriële sente un fluido gelido attraversarle il corpo. Sa che non ignorerà quello sguardo, che il dado è tratto, che avrebbe dovuto andarsene in tempo, perché la notte era fin troppo intensa, le bocche si parlavano con troppa infatuazione. Sa che ormai non se ne andrà più. E Picabia si apre del tutto.

Versailles, 1908: Gabriële Buffet, ventisettenne pianista di talento, incontra l’uomo che segnerà per sempre il suo destino.
Lui ha pochi anni più di lei, il suo nome è Francis Picabia ed è un acclamato ed estroso artista parigino, per lui Gabriële abbandonerà la musica.
L’amore, l’arte e una sorta di insondabile sventatezza unirà queste due anime, la loro vita è narrata nel libro Gabriële di Anne e Claire Berest edito da Neri Pozza.
Le due autrici consegnano così al lettore una biografia appassionata dedicata alla loro bisnonna Gabriële che fu fatale musa ispiratrice e compagna del loro bisnonno Francis.
Picabia è turbolento, eccessivo, ama il brivido della velocità e le macchine rombanti, si crogiola negli eccessi, ha un animo inquieto e indomabile, è un uomo difficile ma è anche un pittore geniale.
E lei, Gabriële, non è una donna che rimane in disparte: è con lui protagonista della scena culturale, è intuitiva, lungimirante, indipendente, sarà lei ad ispirare Picabia nella sua svolta astrattista.

In quegli anni sfavillanti di avanguardie artistiche nasce infatti una nuova maniera di osservare il mondo e di narrarlo, fioriscono modalità espressive nuove e mai immaginate prima.
Compagni dei giorni di Gabriële e di Picabia sono altri artisti destinati a lasciare il segno come Marcel Duchamp, giovane favoloso e seducente con il quale Gabriele vivrà anche una vibrante storia d’amore o come il poeta Guillaume Apollinaire la cui figura trova ampio spazio tra le pagine di questo libro.
Lo sguardo va poi oltre la Francia, ho trovato particolarmente godibili le pagine dedicate al primo viaggio in America dei due protagonisti.
I due partono per una mostra d’arte che si terrà a New York, non hanno molti soldi e così sono costretti a prendere un posto in “terza classe cabina”, una via di mezzo tra la seconda classe e la terza classe dove viaggiavano gli emigranti.
E così, mentre la buona società si gode gli agi della prima classe, sul piroscafo La Lorraine i coniugi Picabia dividono la cabina con i letti a castello con altre due coppie, il malumore di Francis è palpabile, c’è anche il divieto di raggiungere le zone di pertinenza delle classi superiori.
E poi, a un certo punto, accade l’impensabile: una tempesta con onde alte fino a 20 metri sconquassa il piroscafo, a bordo si diffonde il panico ma per Picabia questa è l’occasione straordinaria per esplorare la nave, dato che il personale di bordo ha ben altro da fare che chiedere i documenti ai passeggeri.

Eccolo, dunque, il funambolo, deambulare liberamente da un ponte all’altro. Il suo sguardo si perde nei corridoi e nei saloni vuoti che sembrano riflettersi all’infinito nelle specchiere.

Ed è un’emozione, una vertigine, un’esperienza che riserverà a Picabia un incontro sorprendente.
Intenso, vivace, ricco di aneddoti e di storie sapientemente ricostruite il libro di Anne e Claire Berest è un gioiello che luccica di quella luce ammaliante di un periodo artistico innovativo e favoloso.
C’è molta Parigi tra queste pagine, poi c’è molta Francia e ci sono le dolcezze della Svizzera e le sfide artistiche dei dadaisti nella cornice di Barcellona.
E spiccano i protagonisti di un’epoca come Isadora Duncan, Tristan Tzara ed Elsa Schiapparelli.
Inesorabile aleggia poi l’ombra cupa della guerra che oscura le vite e le ghermisce, lasciando il suo segno indelebile.
Il legame profondo ed intenso tra Picabia e Gabriële sarà destinato a sfilacciarsi malgrado ad unirli non sia solo l’amore per l’arte ma anche la nascita dei figli che, invece, sembrano essere quasi marginali nell’equilibrio di queste vite.
E anche quando Francis avrà una nuova compagna Gabriële sarà ancora lì, nelle trame della vita di lui.
Ho amato questo libro per la sua cifra di eleganza, per gli incontri imprevisti, per la scrittura appassionata e per l’affetto indulgente che le autrici rivolgono a Gabriële.
Uno spirito ribelle, una creatura che resta nella memoria sia per la sua forza che per la sua umana fragilità.

Sulla nave per la Francia Gaby sarà sola. Finalmente. Giorno dopo giorno, durante la traversata, si avvicinerà un po’ di più agli alberi e alla Svizzera, sognando di ritrovare la natura, di ritrovare se stessa nelle lunghe camminate, la cui spossatezza che ne deriva è salutare sopravvivenza. Ciò di cui ha voglia è una musica che si senta soltanto nella sua testa.

Il pasticciere del re

“Il re, alla fine, si era messo a mangiare gelati. Ma solo con Louise. Ogni giorno ne mandavo uno diverso negli appartamenti della ragazza. Susina selvatica, falso frutto della rosa, pera, mora e le grosse nocciole del Kent.”

Londra, 1670: presso la reggia di Carlo II Stuart giungono Carlo Demirco, promettente pasticciere italiano e la giovane bretone Louise de Kérouaille, incantevole damigella di corte.
Ad inviarli è il re di Francia Luigi XIV che vorrebbe tramite loro rinsaldare un legame prezioso per gli equilibri politici e garantirsi l’appoggio del sovrano d’Inghilterra nel conflitto con l’Olanda.
Questa è una storia intricata, vivace e movimentata, ricca di eventi e di colpi di scena come solo le storie vere sanno essere ed è una storia dove fantasia e realtà si intrecciano con armonia: intrighi, segreti e trame sono sapientemente intessuti tra le pagine del romanzo Il pasticciere del re di Anthony Capella edito da Neri Pozza e Beat Edizioni.
È un libro delizioso, invitante e accattivante come i gelati favolosi creati dal leggendario Carlo Demirco, personaggio realmente esistito al quale si attribuisce il merito di aver fatto in modo che il gelato non fosse privilegio esclusivo dei re, come scrive nell’epilogo Capella medesimo.
Nel romanzo poi i capitoli dedicati all’estroso pasticciere di corte si aprono con citazioni e brevi ricette prese da The book of ices, trattato di Carlo Demirco dedicato appunto ai gelati.
La bella Louise, invece, ha in serbo altre sublimi dolcezze per il sovrano del quale diverrà l’adorata amante e consigliera, la ragazza conquisterà con caparbia una buona posizione e una certa influenza.
E i gelati di Demirco strabiliano i nostri occhi come una delizia inusitata, qualsiasi bontà voi abbiate gustato vi apparirà banale paragonata agli accostamenti arditi del pasticciere del re.

“Dopo lunghe riflessioni decisi di confezionare un sorbetto alla melagrana con una salsa allo champagne, una gelatina di mela e crisantemo e una granita con latte aromatizzato al finocchio.”

E riga dopo riga si viene così conquistati dalle esclusive bontà che giungono sulla tavola del sovrano.
Sono dolcezze avvolgenti, una fantasmagoria di sapori e profumi: dalla crema inglese al ribes rosso, dall’acqua di rose al bergamotto e poi accenti di spezie, bontà di ciliegie e di fragole succose, freschezza di limoni e sentore di vaniglia, brio di chiodi di garofano e morbidezza di pere e di pesche e leggerezza di nespole.
Ogni riga è una poesia, impareggiabile e fresca come il gelato di Carlo Demirco.
E poi ci sono i modi rocamboleschi per conservare il ghiaccio, all’epoca era tutto più complicato e non mancano gli stratagemmi per celare i segreti di un ottimo gelato.
E che stupori!
Non potete immaginare gli sguardi quella volta che Demirco fece giungere nelle cucine reali un delizioso ananas, tutti quanti si sporgevano per scorgere quello strano frutto mai veduto!
I talenti culinari di Demirco si alternano alle affascinanti astuzie femminili di Louise, una creatura magnifica della quale l’autore ci restituisce un sapiente e piacevole ritratto, è impossibile non simpatizzare per la bella Louise, è una giovane donna amabile e davvero gradevole.
E a proposito di lei aggiungo una piccola curiosità: tra i suoi discendenti figura anche Lady Diana.
Brioso, gradevole, incalzante, questo romanzo lascia spazio ai sentimenti e ai diversi sobbalzi del cuore.

“L’amore è come il ghiaccio. Vi assale di nascosto, vi si insinua dentro con l’inganno, rompendo ogni difesa, scovando gli anfratti più nascosti della carne. Non assomiglia a calore, dolore o bruciore, ma piuttosto a un’insensibilità interna, come se il cuore stesso si stesse indurendo, trasformandovi in pietra. L’amore vi afferra, stritolandovi con una forza che può spezzare le rocce o frantumare gli scafi delle navi.”

Il pasticciere del re è un libro splendido e sorprendente, scritto con talento e con vera competenza frutto di accurate ricerche storiche che sanno rivelare una certa Francia e poi in una certa indimenticabile Londra.
Tra trame di palazzo e tra i sospiri delle cortigiane vi ritroverete così in quel mondo e avrete anche il piacere di assaporare uno dei gelati deliziosi del pasticciere del re.

“I gelati, come la vendetta, si consumano meglio freddi; ma come la vendetta, se sono troppo freddi si gusteranno meno.”

Al di qua del fiume

“Da quando coltiva questo sogno? Lo ha immaginato talmente tanto che se chiude gli occhi riesce a vedere il lungo viale alberato che costeggia l’opificio e la ciminiera in mattoni che svetta nel cielo come un vessillo; può sentire il suono della campanella che dà vita alla fabbrica, gli operai che passano i cancelli ed entrano vociando, il clangore assordante dei macchinari, treni carichi di stoffe diretti in ogni parte del mondo. E il marchio della ditta Benigno Crespi, che varca l’oceano e arriva fino nelle Americhe.

Il sogno, straordinario e tenace, è quello di Cristoforo Crespi, figlio di un tintore e imprenditore con gli occhi colmi di futuro, la sua visione del mondo è narrata nel corposo romanzo Al di qua del Fiume di Alessandra Selmi pubblicato da Editrice Nord.
La storia vera di Crespi si mescola così ad elementi letterari, l’autrice ci svela il lungo percorso di Cristoforo, narrando i suoi talenti e i progetti che egli realizzerà a Canonica d’Adda, in provincia di Bergamo, a partire dal 1877.
Il cotonificio di Cristoforo Crespi crescerà e diverrà un luogo che si distingue, nel tempo delle innovazioni industriali, perché Cristoforo farà sorgere attorno alla fabbrica un avveniristico villaggio operaio: il villaggio Crespi d’Adda.
Lo pensa, lo progetta, lo fa divenire solida realtà:

Cristoforo immagina le donne che fanno capannello al lavatoio, i bambini che giocano in strada, davanti a una fila di casette ordinate, e magari una scuola, l’infermeria, la chiesa, una piccola comunità coesa e autonoma, in cui i confini di lavoro e di vita familiare si fondono.

E così Cristoforo sceglie i suoi migliori operai e insieme a loro costruisce il suo sogno, per oltre 480 pagine la Selmi ci accompagna alla scoperta di queste vite, intrecciando realtà e immaginazione in maniera sottile e abile, intessendo un romanzo scorrevole che si legge piacevolmente.
È un mondo duro quello degli operai, il sogno è fatto anche di molta fatica e di una sorta di ineluttabilità, ognuno segue il proprio destino dato dalla nascita e dalla propria classe sociale, tra queste pagine si toccano spesso le corde del dramma e della tragedia come parti integranti della vita stessa e del suo naturale fluire.
Ricco è l’intreccio che arriva a coprire le alterne vicende del cotonificio e del villaggio fino al 1930: la storia di Crespi d’Adda muta insieme alla storia d’Italia e agli eventi che segnano la nazione.
Il popolo di Crespi d’Adda poi è composto da gente semplice e vera che conosce il sacrificio, la dedizione e il senso lavoro.
C’è l’Amalia che sente certe voci che le preannunciano fatti terribili e c’è Remigio che fin dall’infanzia pare segnato dal marchio della fragilità, poi c’è l’Elvira, una ragazza che farà scelte sconsiderate e ne pagherà il duro prezzo.
E poi c’è l’Agazzi, lui gestisce la locanda e ha un figlio di nome Rino, una testa calda, uno che si infervora per i diritti dei lavoratori e parteciperà agli scioperi e alle manifestazioni.
Il Rino dell’Agazzi, con il suo fervore assoluto e spontaneo, a tratti mi ha ricordato Etienne Lantier, l’eroe di Germinal di Emile Zola.
Figura fondamentale del romanzo è poi l’Emilia, la conosciamo bambina e la vediamo diventare donna e stringere un legame di affetto e sincera amicizia con Silvio Crespi, il figlio del padrone, colui che un giorno prenderà le redini dell’azienda raccogliendo l’eredità del padre.
I due cresceranno insieme, vicini ma distanti, come prevede il loro destino, saranno amici, complici, si conforteranno e a tratti non si comprenderanno, Silvio poi ha anche il suo da fare con il fratello Daniele che in famiglia dà diversi pensieri.
Parallelamente alla vita degli operai scopriamo il mondo dei Crespi con i suoi privilegi: la casa di Milano, la pinacoteca, la villa sul lago, le frequentazioni esclusive e le ambizioni politiche, le usanze e i ritmi di esistenze agiate.
Il villaggio Crespi d’Adda è oggi un sito Patrimonio dell’ UNESCO ancora abitato, le villette e le case del villaggio operaio ospitano così nuova vita, è possibile visitarlo e qui trovate il sito con tutte le informazioni e con una ricca galleria fotografica.
Alessandra Selmi, con il suo romanzo, ha alzato il velo su un mondo e su una grande storia ottocentesca, sul sogno magnifico di Cristoforo Crespi e sul suo culto del lavoro: il Villaggio Crespi d’Adda sorto su un lembo di terra lombarda, in un tempo di grandi mutamenti e importanti innovazioni.

Le macchine sono tutte uguali; se una si rompe, ne compri un’altra e non noti nemmeno la differenza. Gli uomini invece, sono unici. Se gli operai ti abbandonano, puoi avere la fabbrica più grande e moderna del mondo ma non hai più niente. Non sei più niente. Noi siamo imprenditori del cotone grazie agli uomini, e agli uomini dobbiamo ogni cosa. Per questo è importante conoscerli tutti di persona, i tuoi operai.