Genova, 1856: carcerieri e carcerati nelle prigioni della Superba

Un tempo monastero delle Monache Benedettine, il Carcere di Sant’Andrea si trovava in Piazza San Domenico, uno dei tanti luoghi di una Genova che non c’è più.
In quella piazza, situata dove ora si trova De Ferrari, al posto del Carlo Felice c’era il convento di San Domenico e sul colle denominato appunto di Sant’Andrea, a poca distanza dalle torri di Porta Soprana, il carcere.
Rimase in funzione per tutto il 1800, ma con il nuovo secolo si decise di demolirlo per avviare poi, in quella zona, la costruzione di Via XX Settembre e, in seguito, del palazzo della Borsa.
Il chiostro del convento venne pertanto smontato e trasferito dietro alla casa di Cristoforo Colombo, fatto che ingenera una certa confusione in alcuni turisti poco informati, i quali pensano che si tratti del giardino di famiglia del celebre navigatore.
Il carcere di Sant’Andrea: lì vennero rinchiusi Alberto Mario, Jessie White e Nino Bixio e molti altri protagonisti del nostro risorgimento.
Era il maggior carcere di Genova, insieme a quello che si trovava a Palazzo Ducale, dove venne recluso e dove morì Jacopo Ruffini, nel 1833.
E’ ancora oggi visibile lo stanzino tetro in cui perse la vita il patriota, e fa grande impressione, ve lo assicuro, vedere i graffiti incisi sui muri da persone che furono lì detenute ed è un argomento che, per la sua vastità, merita di essere trattato a parte.
A Genova vi erano poi altre prigioni succursali, di non grande capienza.
Da un documento dell’Archivio di Stato, infatti, si evince che, nel 1849, alla Malapaga nella zona del Molo, a quel tempo, si poteva contare su 90 posti, mentre alla Caserma di San Giacomo si disponeva di altri 50.
Nel suo libro  “I nomi delle Strade di Genova” (Arnaldo Forni Editore) Amedeo Pescio, fidato cronista  delle storie della Superba, racconta che per secoli, ai tempi della Repubblica di Genova, alla Malapaga si rinchiudevano i debitori e gli insolventi ed è da notare che il genovesi, accorti, ce li spedivano a spese dei creditori.
Ma chi erano gli altri prigionieri delle carceri? A quali pene venivano condannati e per quali colpe?
Bisogna viaggiare nel tempo, con l’immaginazione ed entrare lì, in quelle celle, sedersi accanto ai condannati ed ascoltare le loro storie.
Io l’ho vissuta questa esperienza.
Ho sfogliato è un volume alto, pesante, con gli angoli di metallo arrugginito, munito di una grossa  fibbia del medesimo materiale per richiuderlo: la sua carta ingiallita è ruvida e spessa, ed è vergata a mano con il pennino e l’inchiostro, con una calligrafia che nemmeno con mesi e mesi di esercizio riuscirei ad emulare.
Sulla prima pagina vi è scritto:

Direzione centrale dei bagni marittimi.
Matricola del condannati incominciata il 8 Aprile 1856.

Il prezioso registro, insieme a molti altri di uguale importanza, si trova presso l’Archivio di Stato di Genova.
E’ la parola scritta a tramandarci quel che non è più.
E quelle persone, le loro vite, le loro storie sono lì, tra quelle pagine.
Mentre leggevo, pensavo.
Chi ha scritto questo libro? E così me lo sono figurato, l’impiegato del carcere: cupo, triste, severo.
L’ho visto, lì seduto in una sorta di guardiola, davanti a un tavolino di legno scuro, alla luce di una lampada a petrolio compila il suo librone con bella scrittura.
E ogni giorno gli passa davanti un mondo: ladri, assassini, malfattori, ma anche povera gente ingiustamente gettata lì.
E loro, i carcerati? Che vita grama toccava a chi infrangeva la legge!
C’è un certo Gio Antonio di Cagliari, ad esempio. E se volete immaginare com’era basta che leggiate la sua scheda: ha 36 anni, è alto 1.67, ha i capelli castagni, la fronte scoperta, gli occhi bigi, il naso grosso, la bocca media, il mento tondo, il viso pieno.
Lo vedete ora Gio Antonio, buttato esanime sul suo giaciglio? Lo sentite lamentarsi, per la fame e per le angherie che subisce là dentro?
Deve farsi ventidue anni, per “Fabbricazione di falsi biglietti della banca nazionale e di vaglia postali”.
E lì vicino, nella cella accanto c’è un altro che non se la passa meglio, è in galera per “furto sacrilego” e deve scontare vent’anni  più altri dieci di sorveglianza della polizia.
Non uscirà vivo da lì, con tutta probabilità. Lui questo lo sa e ha tentato di svignarsela, ma gli è andata male e si è pure preso una pena aggiuntiva di cinque anni.
Ancor peggio è andata al falegname, quello con il viso vajolato: lui, condannato per “ferite volontarie”, deve scontare il carcere a vita. Sarà più breve, tuttavia, la sua pena in quanto se andrà nel 1866 a causa del colera.
Erano malsane le carceri, a quel tempo, si pativa la fame, la sete, il freddo.
Erano diffuse le febbri terzane, la sifilide, le bronchiti erano spesso letali.
In un documento del 1849, sempre disponibile all’Archivio di Stato, si legge che il carcere di Sant’Andrea, in quel periodo, è particolarmente affollato e che, a causa del caldo eccessivo, si teme che si propaghi qualche epidemia. E ancora, nello stesso anno, si scrive che, temendo la diffusione del colera asiatico,  il consiglio provinciale della Sanità intende adibire alcuni locali a infermeria, nel caso ve ne fosse bisogno.
Nel 1856, a Genova, è carcerato anche un certo Giacomo, lui è un filatore di cotone di Ivrea e il suo crimine è “Grassazione e furto di rame nell’Arsenale della Marina“.
E se per caso vi state chiedendo cosa caspita sia la grassazione, sappiate che prima di aprire il libro nero delle carceri di Genova pure io lo ignoravo: significa rapina a mano armata, un delitto piuttosto grave.
A Giacomo costerà vent’anni, più altri cinque di sorveglianza della polizia.
E poi, poi in quella cella laggiù c’è Carlo, un tizio di Voghera che, si legge sul registro, ha inciso sul braccio destro due fiori, tre stelle e due cuori. Ed è dentro per “insubordinazione con vie di fatto e tentata evasione“, non è uno scherzo, lui e i suoi tatuaggi non vedranno la luce del sole per quindici anni.
Vi passano davanti decine di esistenze con quel libro e provate pena per quelle persone, malgrado i loro crimini.
E allora, se lo leggerete, vi dispiacerete per il loro destino.
E vi stringerà il cuore per Michele, il negoziante di Pinerolo.
E’ in carcere per “furto”, chissà poi di cosa.
Si è beccato dodici anni più cinque di sorveglianza della polizia e, nel giugno del 1853, mentre era ai lavori forzati all’arsenale della Marina, si è dato alla macchia ma l’hanno ripreso.  E così, per punizione, lo hanno condannato ad un aumento di pena e a due anni di doppia catena.
Ma Michele non si dà per vinto e l’anno dopo ci riprova: si lima la catena, si nasconde in un magazzino, ma lo riacciuffano.
E nel 1855 ancora, si lima le due catene che porta alla gamba ma non ce la fa ad evadere.
E poi ancora, di nuovo, sempre: il suo scopo nella vita è togliersi quella stramaledetta ferraglia che gli blocca la caviglia e lo priva della sua libertà.
E ogni volta, immancabilmente i suoi tentativi di fuga gli costano altri anni di galera.
Ma Michele non si arrende, conta solo essere liberi, liberi e fuori da quell’inferno.
Ci proverà fino al 1860, anno in cui termina la sua prigionia nella nostra città per essere trasferito nel carcere di Alghero.
Ci sono queste storie in quel libro, storie di vita e di sofferenza.
E’ stata dura, sapete, vedersele scorrere ad una ad una sotto gli occhi, non si rimane indifferenti.
Però, sapete, ho sentito dei mormorii,dei sussurri, parole dette a metà che si lasciavano intendere.
Ne parlano tutti, in Sant’Andrea.
E dalla cella in fondo al corridoio, quella umida e maleodorante, è giunta la notizia ed è passata di bocca in bocca, da uno all’altro, tra lo stupore e l’ammirazione.
E uno a sentir la notizia è scoppiato in una risata fragorosa, e ha cominciato a picchiare forte sulle sbarre, sempre più forte, tanto che si è beccato pure una punizione.
Lo dicono tutti, in Sant’Andrea: non c’è n’è uno che non ci avrebbe scommesso che sarebbe venuto quel giorno, sì, lo sapevano tutti che, alla fine,  Michele ce l’avrebbe fatta.