Accadde al principio dell’estate del 1854, in quei giorni si accertò un caso di colera nella città di Genova: l’ammalato era un francese sbarcato da un piroscafo ed esalò l’ultimo respiro all’Ospedale di Pammatone.
In quell’anno, a Genova, l’inverno fu duro, seguì una primavera umida e fredda e poi il caldo scoppiò all’improvviso.
Genova, città portuale, era all’epoca in precarie condizioni igieniche, le cronache narrano che tra i primi ad ammalarsi furono i forzati addetti ai lavori del porto, uomini che immergevano mani e braccia in acque luride e infette, nel luogo dove sfociavano le cloache e i canali di scolo.
Scoppia così una feroce epidemia, i medici della città si prodigano per i più sfortunati, non è la prima volta che la Superba è colpita da questa mortale disgrazia, è già accaduto nel 1835.
Si cerca di arginare il male con provvedimenti di varia natura: si impone di imbiancare i luoghi malsani, i portici e gli atri sudici che possono essere focolaio di infezioni, si tenta di risanare gli ambienti, si predispongono controlli nelle botteghe e nei depositi di commestibili.
Nasce un comitato di soccorso per ogni Sestiere delle città per portare aiuto ed assistenza ai più miseri e ai bisognosi di cure.
Si stabilisce che in ogni sestiere ci sia una farmacia addetta a restare aperta notte e giorno per fornire gratuitamente medicinali, cibo e aiuti di vario genere ai più miseri, una di esse era nei pressi di Porta dei Vacca.
Nulla è sufficiente a salvare la città, insieme alla malattia si diffonde il terrore dell’epidemia, le cronache del tempo narrano vari esempi di diffidenza, in particolare nei confronti dei medici accusati di riservare ai ricchi cure migliori rispetto ai poveri.
Le strade si svuotano, le botteghe restano chiuse.
E per le vie di Genova si assiste a scene di manzoniana memoria rese ancor più drammatiche dalla conformazione della città.
Nei vicoli stretti e angusti le morti sono più frequenti che altrove, c’è anche la difficoltà di trasportare i defunti fuori dalle loro case, l’epidemia dilaga senza sosta, quando una persona muore per il colera si prelevano dalla sua casa tutte le cose ritenute infette, le stesse vengono mandate al Lazzaretto della Foce.
Si cerca anche di portare via le persone dai luoghi malsani e di collocarle in posti salubri.
Chi può fugge, chi resta si affida alla misericordia del cielo e alla mano del Signore e come sempre le prime vittime sono i più miseri, per i tanti orfanelli si aprono le porte dell’Albergo dei Poveri.
Sono diversi coloro che si mettono a disposizione del prossimo, fino a settembre il colera dilagherà impietoso.
Le zone più colpite sono quelle vicine al porto, Prè è il sestiere che paga il prezzo più alto, anche a Portoria, al Carmine e alla Maddalena si registrano numerosi casi, le strade ampie, come Via Balbi e Via Garibaldi, sono colpite in maniera molto minore dall’epidemia.
In questo scenario da tregenda, immaginate un certo palazzo del centro storico, in Piazza Soziglia.
Non possiamo figurarci i visi delle persone che abitarono in questa casa, i loro occhi hanno veduto l’inferno e poi hanno scorto una luce, la salvezza della vita e un nuovo principio.
Nel tempo in cui ci si affidava alla Divina Provvidenza e al cuore della Vergine Maria, il culto di Lei era molto diffuso nella città di Genova.
Forse là visse una giovane madre di molti figli, forse in quelle stanze respirò una vecchia devota che snocciolava continue preghiere alla Madonna, chiedendole aiuto e protezione.
Quando passate in Soziglia prestate attenzione, sul marmo è incisa la memoria di quei giorni drammatici.
Questo palazzo venne risparmiato, nessuno dei suoi abitanti perse la vita a causa del colera e così, sul finire di quell’anno, questi genovesi vollero apporre questo altorilievo opera di Gio Batta Cevasco sul muro della loro casa, ad eterno ricordo del pericolo scampato.
Era un altro tempo, fragile e caduco come le tante vite perdute in quella paurosa epidemia che travolse Genova nell’estate del 1854.