Un angelo per Francesca

È un angelo leggiadro e colmo di grazia, tiene gli occhi così fissi sull’ignoto, ha chiome morbide, una bella aureola e tiene le braccia così incrociate sul petto.
È la creatura celeste che così presidia l’eterno sonno di Francesca Frassinetti Frixone.

E così si legge il nome della defunta, scolpito nel marmo con caratteri armoniosi e raffinati.

La lesena, sita nel Porticato Inferiore a Levante del Cimitero Monumentale di Staglieno, è opera del talento dello scultore Demetrio Paernio e fu scolpita in quegli anni ‘80 dell’Ottocento in cui la Signora Francesca lasciò le cose terrene del mondo.
Così si svela l’opera di Paernio, nella penombra di questo porticato.

Tornando tante volte a Staglieno, tuttavia, si ha il particolare privilegio di poter ammirare sculture come questa anche in maniera differente, a volte.
E così, trovandomi là in un pomeriggio in cui il sole glorioso invadeva il porticato, ho potuto vedere la luce disegnare certi contorni e proiettare l’ombra di una croce sul marmo così abilmente reso vivo da Paernio.
L’angelo magnifico resta così seduto, con questa fierezza, nella sua celeste lievità, mentre il sole lambisce le pieghe del suo abito.

La luce accarezza il suo profilo, le palpebre e le labbra, le dita sottili, le lievi piume delle sue ali grandi.

La luce radiosa e brillante fa così risplendere nella sua assoluta beltà l’angelo che custodisce il tempo vissuto e la memoria di Francesca.

Antonio Burlando: uno dei Mille di Marsala

La fierezza, il coraggio e un nome da ricordare: Antonio Burlando, nato a Genova il 2 Dicembre 1823, nella sua città lasciò le cose del mondo il 23 Novembre 1895.
Protagonista delle battaglie risorgimentali il suo nome risplende tra quelli di coloro che fecero l’Italia, la sua figura si staglia eroica all’ombra degli alberi del Boschetto Irregolare del Cimitero Monumentale di Staglieno dove egli riposa effigiato nei tratti dal valente scultore Demetrio Paernio.

Le parole poi, a volte, narrano di noi la nostra essenza e ciò che siamo stati.
Le parole delineano le azioni, la volontà, il segno che abbiamo lasciato nel mondo.

Per Antonio Burlando le scrisse Anton Giulio Barrili che compose il testo della lapide esaltando le gesta di lui e il suo contributo alla causa garibaldina.
E così si legge: Antonio Burlando uno dei Mille di Marsala.
Solo a leggere quella semplice frase ti accorgi che quelle parole racchiudono un intero credo e svelano il senso di appartenenza ad una schiera di intrepidi sodali uniti da una causa comune.
Uno dei Mille di Marsala, uno di loro.
Uno che combatté per la nostra bandiera e per la nostra Italia unita.
Uno che guidò i suoi compagni alla battaglia.
E solo a leggere quella frase ti pare di vederli tutti vicini quei giovani che salpano con il vento in faccia e lasciano lo scoglio di Quarto, tra di loro c’è anche lui: Antonio Burlando, uno dei Mille di Marsala.

Burlando era membro della Società del Tiro a Segno e apparteneva al Corpo dei Carabinieri Genovesi, un gruppo di valorosi così narrati dalla penna di Giulio Cesare Abba nel suo volume Storia dei Mille:

“Ora ecco i Carabinieri genovesi, quasi tutti di Genova, o in Genova vissuti a lungo, mazziniani ardenti, armati di carabine loro proprie, esercitati nel tiro a segno da otto o nove anni i più, gente che s’era già fatta ammirare nel 1859, ben provveduta, colta, elegante. “

Egli fu nelle file dei garibaldini tra i Cacciatori delle Alpi nella guerra del 1859, così luccica la sua spada sotto il sole che filtra tra gli rami fitti di Staglieno.

Se poi vi recherete a visitare il Museo del Risorgimento e Istituto Mazziniano tra i molti cimeli appartenuti agli eroi di quel tempo glorioso troverete anche la divisa del Colonnello Antonio Burlando, sulla stoffa rossa sono appuntate otto diverse medaglie.
C’è anche la sua carabina e su di essa è fissato un foglio scritto dallo stesso Burlando dove egli dichiara che l’arma gli era stata donata da Felice Orsini, Burlando la usò nelle campagne del 1859 e 1860.

L’eroico genovese riportò una ferita ad una gamba durante la battaglia di Calatafimi, da ardente patriota seguì ancora Garibaldi nel 1866 e nel 1870, in seguito fu consigliere comunale della città per la lista democratica.
E quelle medaglie fieramente appuntate sulla sua giacca rossa sono fedelmente riprodotte anche nel busto collocato a Villetta Di Negro.

E ancora sono ricordate le gesta del prode colonnello.

Ritto, nella sua sua fiera postura così è ritratto l’eroe di numerose battaglie nel monumento forgiato in sua memoria.

Il suo è un nome da onorare, lui era Antonio Burlando: uno dei Mille di Marsala.

Luce e preghiera

È uno dei capolavori più celebri di Staglieno, è opera di Demetrio Paernio che con mirabile talento scolpì questo monumento nel 1910.
Vi è rappresentato il Compianto delle pie donne sul corpo del Cristo nel sepolcro, quei volti dolenti esprimono mistica devozione, sofferenza e struggente raccoglimento.
Le aggraziate figure che custodiscono il riposo della famiglia Appiani sono apparse sulla copertina dell’album Closer dei Joy Division e per questa ragione molte persone cercano l’opera di Paernio per poterla ammirare con i loro occhi.

E poi, a volte.
A volte, in certe stagioni, l’ombra accarezza quei manti e i tratti regolari di quel viso velato di sconsolata tristezza.

A volte, ancora, la luce improvvisa sfiora il morbido drappeggio degli abiti, gli occhi socchiusi e le labbra carnose, sembra persino che il respiro vitale percorra queste membra.

E tutto è silenzio, mentre il sole glorioso filtra con la sua potenza e rischiara e illumina, mistero bello e incomprensibile.

E le mani si posano sulle mani, le voci paiono unirsi in una sola preghiera sentita e commossa davanti al corpo senza più vita del Figlio di Dio.

E quella luce radiosa ed improvvisa tutto muta, accompagna le sommesse litanie, si posa gentile su questi visi e sull’opera perfetta di Demetrio Paernio.

Il monumento Montebruno: l’abbraccio dell’angelo

È forte e protettivo l’abbraccio dell’angelo, la celeste creatura stringe tra le sue salde braccia giovane e acerba vita.
L’angelo custodisce, avvolge e cura con gesti amorosi e delicati.
Questo angelo racconta il dolore di una giovane sposa, colpita troppo presto nei suoi affetti più cari.
Lei si chiamava Caterina ed era la moglie del Conte Emilio Montebruno, tutto poteva lasciar pensare che il loro destino sarebbe stato felice e sereno.
Non fu così, perché nell’anno 1884 il loro figlio primogenito, un frugoletto di nome Giovanni, venne strappato prematuramente alla vita.

E per quanto si possa supporre che all’epoca le persone fossero maggiormente preparate a lutti simili il dolore di questi genitori fu straziante.
Non passò molto tempo, venne il mese di Agosto del 1886 e in un caldo giorno d’estate giunse ancora un momento fatale.
Colpito da tremendo colera muore, ad appena 29 anni, Emilio Montebruno, uomo di belle doti insigne, così si legge sulla lapide che lo ricorda.
Amato consorte e compagno di vita di Caterina che resta sola con la figlioletta Maria Teresa.
Ed è Ferdinando Resasco a raccontare che Caterina commissiona il monumento funebre per i suoi cari allo scultore Demetrio Paernio e questi forgia nel marmo questa armoniosa creatura celeste.
L’angelo tiene stretto al petto un bambino: quel dolce piccolino è Giovanni, il figlio troppo presto perduto dai coniugi Montebruno.

Con delicatezza l’angelo conduce il bimbo sulla terra e lo porta a spargere fiori profumati sulla tomba del suo giovane padre.
E il piccino nella sua manina paffuta stringe fiorellini dai petali colorati.

E tutto è leggerezza e lievità, il vento smuove le vesti e i fiori donati dal piccolo Giovanni cadono profumati e amorosi sulla tomba del suo papà.

In un monumento che racconta il dolore di una giovane donna due volte ferita, sposa e madre dolente.
Qui anche Caterina riposa, insieme alla figlia Maria Teresa e accanto a coloro che se ne andarono troppo presto.

Possiedo anche una cartolina antica dove è ritratta questa splendida opera di Demetrio Paernio, nell’immagine d’epoca spicca con evidenza il candore di quei fiori nel contrasto con il colore nero della tomba.

Un gesto, una memoria, il ricordo della propria vita.
Commuove ancora, ancora palpita d’amore come se certi cuori battessero ancora, protetti per sempre nell’abbraccio dell’angelo.

Genova 1893: un atroce delitto a De Ferrari

Accadde sul finire dell’Ottocento, in un elegante appartamento del centro cittadino.
In quella casa abita il Cavaliere Nicola Currò con la sua famiglia, in quel momento con lui c’è il figlio Niccolò, un giovane avvocato: gente che conta, gente stimata e conosciuta.
Insieme a loro c’è un ospite, si tratta di un amico di nome Vittorio, è invitato a cena e sarà lui a riferire il fattaccio.
Accadde sul finire dell’Ottocento, in un edificio prestigioso collocato a fianco di Palazzo Ducale, lo vedete nell’immagine sottostante, al piano terra si distinguono le tende chiare tirate in fuori.

Piazza De Ferrari

Lì, nei tempi a seguire, avrà sede Il Secolo XIX, uno dei più celebri quotidiani genovesi, sulle sue pagine e su quelle di altri giornali avrà ampio spazio la vicenda del Barone Currò.

Piazza De Ferrari (2)

Dopo la cena, svoltasi in tutta tranquillità, i due Currò restano a chiacchierare con il loro ospite, nel frattempo il domestico, un certo Michele, è intento a sparecchiare la tavola.
D’un tratto, per una banale quisquilia, Michele risponde sgarbatamente al barone, il suo tono è arrogante e aggressivo, si mette in mezzo il giovane Niccolò e il domestico ha nei suoi riguardi gesti provocatori, pare che voglia mettergli le mani addosso.
Forse da tempo Michele covava un incomprensibile odio cieco del quale nessuno si era mai accorto.
Giunge una cameriera, affabile e ansiosa tenta di sedare la lite, Michele però ha gli occhi infuocati di rabbia, si allontana e corre veloce verso la sua stanza.
– State attenti! – esclama la cameriera.
Lei sa che Michele ha un’arma, lei teme che lui non esiterebbe ad usarla e così avvisa i suoi padroni.
Sono momenti concitatissimi, nella bella dimora di De Ferrari.

Piazza De Ferrari (3)

L’amico di Currò, Vittorio, corre verso la stanza del domestico e con tutta la forza che ha in corpo afferra la maniglia e la tiene stretta per evitare che il domestico possa aprire la porta.
Non basta, d’un tratto l’uscio si spalanca.
Michele, con l’arma in pugno, si precipita nel corridoio e corre verso Nicola Currò, prende la mira, spara e lo colpisce a morte.
E poi ancora, nell’impeto del suo odio, va in cerca del giovane Niccolò e quando lo trova fa fuoco anche contro di lui, Niccolò cade a terra privo di vita.
Le guardie non tardano ad arrivare, la giustizia sarà implacabile, l’assassino dovrà scontare una dura condanna e terminerà i suoi giorni in prigione.
Quello che le cronache non raccontano non è inciso neppure sul marmo.
Resta una vedova affranta, resta una donna alla quale sono stati strappati il marito e il figlio ed è lei a volere che in memoria dei suoi cari sia scolpito un monumento di rara bellezza.

Tomba Currò (3)

A tal scopo commissiona a un celebre scultore una pregevole opera ed è il talento di Demetrio Paernio a lasciare ai posteri il monumento funebre che ancora potete ammirare nella quiete silenziosa di Staglieno.

Tomba Currò (2)

Quello che lo cronache non raccontano non è inciso neppure sul marmo, su quella tomba non troverete traccia della tragedia che colpì questa famiglia.

Tomba Currò

E naturalmente è stato Eugenio a raccontarmi questa vicenda, un bel giorno mi ha detto:
– Non conosci la storia di questo delitto? Cerca le notizie, vedrai che le troverai.
E così è stato, ringrazio Eugenio anche per le immagini antiche che appartengono alla sua bella collezione, di questo angelo vi parlerò ancora perché ci sono ulteriori dettagli che meritano un approfondimento.

Tomba Currò (4)

Tiene le mani giunte, raccolto in una mistica preghiera.

Tomba Currò (5)
Il suo sguardo è rivolto a Cristo in croce, a Lui chiede pace e misericordia per l’anima di questi defunti.

Tomba Currò (7)

Creatura aggraziata e celeste, veglia sul sonno eterno della famiglia Currò.

Tomba Currò (6)