Dicembre 1858: nasce a Genova l’Inno di Garibaldi

È un giorno d’inverno del 1858 in una casa di Genova: è la dimora di un patriota di nome Gabriele Camozzi, bergamasco ed esule politico che è solito radunare in quelle sue stanze molti altri esuli presenti nella Superba.
Il 19 Dicembre di quel 1858, in occasione di una di quelle riunioni, si presenta anche un personaggio illustre: è Giuseppe Garibaldi, nella circostanza c’è anche Nino Bixio.

Garibaldi stringe mani, riscalda i cuori, tutti si avvicinano a lui.
Tra quelle persone c’è anche un rinomato poeta che risiede a Genova e insegna al Collegio delle Peschiere, con i suoi versi ha suggellato uno dei momenti più tragici della storia d’Italia: si tratta di Luigi Mercantini, autore della poesia La Spigolatrice di Sapri scritta in memoria di Carlo Pisacane e dei drammatici eventi della Spedizione di Sapri nella quale perì lo stesso Pisacane e con lui molti altri patrioti.
Garibaldi discorre con Mercantini, a lui chiede di comporre un canto per i suoi volontari: un canto per far ardere i cuori durante la battaglia e da intonare dopo la gloriosa vittoria.
Mercantini onorato accetta, Camozzi propone che sia la moglie del poeta, talentuosa pianista, a comporre la musica.

L’anno volge al termine e l’ultimo giorno di Dicembre gli esuli ancora si trovano a casa di Gabriele Camozzi.
Tutti attendono il volgere degli eventi e con impazienza aspettano di udire le parole prescelte da Mercantini e destinate ai volontari di Garibaldi.
Così, quando il poeta fa il suo ingresso, gli animi si scaldano e i cuori prendono a battere forti all’unisono mentre Mercantini pronuncia quei suoi versi che tutti voi certo conoscerete:

Si scopron le tombe, si levano i morti
I martiri nostri son tutti risorti!
Le spade nel pugno, gli allori alle chiome
La fiamma ed il nome d’Italia nel cor!

Uno scroscio di applausi accolse quelle parole, la signora Mercantini si mise al piano e fece sentire alcune note nella musica prescelta: a comporla non era poi stata lei, l’arduo compito era stato infatti affidato ad Alessio Olivieri, capobanda della Brigata Savoia.
L’evento è narrato con dovizia di particolari tra le pagine della rivista A Compagna del mese di Maggio del 1930.
Quel giorno, in quella dimora, riecheggiarono le parole di Mercantini e tutti i presenti si misero a cantare l’Inno.
Dopo lo sbarco di Marsala il canto patriottico prese il nome di Inno di Garibaldi, Mercantini aggiunse i versi finali sul finire del 1860.

Genova, città dei patrioti, conserva molte memorie di quei giorni gloriosi, anche se a volte i luoghi della storia vengono quasi dimenticati e su di essi si posa inesorabile il velo del tempo.
Luigi Mercantini dimorava in un edificio non più esistente in Via Dei Sansone, anche la casa del patriota Gabriele Camozzi ai nostri tempi non esiste più.
Trascorsero 50 anni dal giorno della partenza dei Mille, nel Maggio 1910 nella Superba si tennero speciali celebrazioni: tra le varie iniziative su quella dimora che un tempo fu casa del patriota Camozzi fu apposta una lastra commemorativa in memoria di quegli eventi.
Come già ho scritto la casa non esiste più, si trovava in Passo dello Zerbino e al suo posto oggi svetta questo edificio di recente costruzione.

La targa marmorea è stata conservata e affissa sul questo nuovo palazzo, tuttavia si trova molto in alto ed anche un po’ difficile da leggere.
Non so quanti genovesi conoscano questo edificio e questo marmo che ricorda un memorabile giorno del nostro passato, io credo sempre che questi luoghi andrebbero valorizzati nella loro vera unicità, senza inutili orpelli e nel rispetto della storia passata.
Trascrivo così per voi i versi scolpiti nel marmo.
Quando vi trovate in Passo dello Zerbino alzate lo sguardo: là passò anche l’Eroe dei Due Mondi, là il poeta Luigi Mercantini declamò davanti a un pubblico di ferventi patrioti L’Inno di Garibaldi.

QUI IN CASA DI GABRIELE CAMOZZI
CAPO DELLA RIVOLUZIONE DELLE VALLI BERGAMASCHE
NEL 1848-49
SOCCORRITORE DI BRESCIA EROICA AGONIZZANTE
LUIGI MERCANTINI
COMPAGNO D’ESILIO A DANIELE MANIN
CANTORE DI TITO SPERI DI CARLO PISACANE
NEL DICEMBRE 1858
PROVAVA L’INNO DA LUI COMPOSTO
PER INCARICO DEL DUCE
E MUSICATO DAL GENOVESE ALESSIO OLIVIERI
PERCHÉ INFIAMMASSE LE ROSSI COORTI NELLA PUGNA
CONTRO I SECOLARI OPPRESSORI D’ITALIA
E NE FOSSE IL PEANA
NEL RITORNO DALLA VITTORIA
——
A RICORDO A EDUCAZIONE DEL POPOLO
A GLORIA DELL’INGEGNO CONSACRATO ALLA PATRIA
IL MUNICIPIO DI GENOVA
NEL CINQUANTESIMO DALLA PARTENZA DEI MILLE.
——
LA LAPIDE PROVIENE DALLA VECCHIA CASA GIÀ ESISTENTE NELLO STESSO SITO.

Il Caffè della Concordia

Vi porto ancora nella via del fasto e delle dimore lussuose, questo sarà un viaggio nel passato di Via Garibaldi che per me resta tuttora Strada Nuova, amo usare ancora quel suo antico toponimo evocativo di certe eleganze inconsuete di tempi distanti.
Camminiamo insieme nei giorni di un secolo di grandi cambiamenti: nella Genova ottocentesca il Caffè della Concordia è un ritrovo esclusivo e molto raffinato.
Era collocato all’interno di Palazzo Bianco e vi si accedeva tramite una scala di marmo dai locali ora occupati da Arduino 1870, negozio di antiquariato e vintage annoverato tra le botteghe storiche.
Che atmosfera incantevole al Caffè della Concordia, da lassù si potevano ammirare le bellezze di Strada Nuova.

Si attraversava una sontuosa galleria e ai tavoli si consumavano autentiche bontà.
Delizioso era il caffè corposo e profumato, celebri erano gli spumoni, i gelati al cioccolato e alla crema, gli arlecchini di fragola e limone e ricercati certi glacés à la napolitaine.
Oltre ad essere un ritrovo molto alla moda il Caffè della Concordia fu anche scenario di certe vicende storiche, era infatti uno dei luoghi prediletti dai protagonisti del nostro Risorgimento.
Si narra che Giuseppe Mazzini si sia nascosto qui per una notte intera nel periodo in cui si organizzava a Genova la spedizione guidata da Carlo Pisacane che finì poi in un massacro nel giugno del 1857.
Lo stesso Pisacane frequentò il locale: vi si recava con la speranza di raccogliere fondi proprio per quella sua eroica impresa nella quale poi perse la vita.
Lo Stabilimento Concordia, così lo si chiamava a quel tempo, era meta di letterati e patrioti, tra gli altri ci si poteva trovare Anton Giulio Barrili, Stefano Canzio e Giorgio Asproni, anche Giuseppe Verdi amava frequentarlo.
Ecco l’insegna del Caffè e la sovrastante galleria, l’immagine è tratta da una cartolina d’epoca di mia proprietà.

Nel bel locale di Strada Nuova i clienti trovavano una bella varietà di svaghi.
Ad esempio ci si poteva accomodare nella sala medievale, così denominata per lo stile dell’arredamento, qui si esibiva una orchestrina composta da valenti musicisti che per il diletto dei presenti eseguivano pezzi d’opera e walzer di Strauss.
C’era anche una sala degli scacchi dove si potevano incontrare eminenti cittadini intenti a dilettarsi con il celebre gioco, non mancavano una sala da pranzo e una sala più piccola e riservata ai ricevimenti per i pranzi di nozze o i battesimi.

Il Caffè della Concordia era dunque molto rinomato, tra i molti mirabili eventi qui si tenne anche il pranzo offerto da Felice Cavallotti in occasione della sua elezione a senatore.
Il tempo poi passò, il nuovo secolo diede luogo ad un nuovo corso e la stella del Caffè della Concordia smise di luccicare: così accade alle cose del mondo.
Ai nostri giorni non si conserva particolare memoria di questo locale che un tempo fu così prestigioso, le notizie che avete letto sono tratte da un articolo di F. Ernesto Morando pubblicato su Il Lavoro del 13 Maggio 1926.
Quando passate in Strada Nuova alzate lo sguardo.
E immaginate una galleria, i bicchieri che tintinnano, le parole scambiate, i minuti che sfuggono.
Il tempo che non abbiamo vissuto, al Caffè della Concordia.

Arduino 1870, cose belle dal nostro passato

C’era una volta a Genova un locale molto celebre: il Caffè della Concordia.
Era frequentato da politici e letterati, qui avreste potuto incontrare l’ardito Carlo Pisacane e molte altre figure eminenti del suo tempo, lo cita anche Giorgio Asproni, il deputato di origine sarda che visse a lungo anche a Genova.
Il Caffè della Concordia aveva un sontuoso e scenografico giardino, i suoi ospiti si ritempravano all’ombra di questo loggiato.

Via Garibaldi

Vi si accedeva dalla sontuosa Strada Nuova, da certi locali che nel 1907 divennero la sede del negozio di Alberto Arduino, orefice di lunga esperienza che già dal 1870 faceva i suoi affari in Corso Torino.
Dopo di lui vennero le sue figlie, il negozio quindi passò ad altre persone ma il nome del Signor Arduino ancora luccica in Via Garibaldi.

Arduino

Ed è una bomboniera, i suoi antichi arredi lo rendono un posto speciale dall’atmosfera affascinante.

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Dal 2010 ne è proprietaria Caterina Ottomano, qui trovate antiquariato e vintage, argenterie, ceramiche e oggettistica d’antan.

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E a far brillare gli occhi ai collezionisti ci sono ad esempio le monete antiche.

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Nelle vetrinette troverete tante cose belle che vengono dal nostro passato: i bracciali delle nostre nonne, le spille sberluccicanti e le collane sfarzose.

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E non manca la contemporaneità.

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Vedrete anche un banco da lavoro, lo usa Caterina per confezionare i suoi bijoux.

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Una luce calda, i mobili color carta da zucchero.

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E ancora bracciali, in una delle vetrine.

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E poi, per l’appunto, le rarità che acquistano coloro che amano le collezioni: le decorazioni militari appartenute a qualcuno che si distinse per le sue gesta.

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E oggetti particolari, questa selezione di antichi timbri ha tutto il fascino del tempo perduto.
Profumo di ceralacca, d’inchiostro e di carta spessa.

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E poi, meraviglia delle meraviglie, un contenitore con le foto antiche: devo confessarvi che molte di esse adesso sono qui con me, non ho saputo resistere a certi sorrisi e a certi volti appena appannati dagli anni trascorsi.

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Lo charme di Arduino e la sua lunga tradizione fanno sì che questo negozio sia annoverato tra le Botteghe Storiche della città.

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Varchi questa soglia e davvero ti sembra di entrare in un altro secolo.

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Per caso vi occorre un binocolo da teatro?
Eccolo, il tutto il suo luccicante splendore.

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E per una serata importante è necessario sfoggiare la borsina adatta, non ci sono dubbi.
Vintage chic e raffinato, lo apprezziamo ancor di più in questa nostra epoca degli accessori in serie.

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Un negozio accogliente e curato, sono felice di ospitare su queste mie pagine tanta raffinata delicatezza.

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Se andrete a scoprire le bellezze di Arduino troverete lei, Caterina Ottomano, una persona piacevole, grintosa e molto competente.
E qui la ringrazio per l’accoglienza e il tempo dedicatomi.

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Il suo negozio è nella via più elegante della città, la strada dei palazzi nobiliari e dei musei.
Ed è qui dal lontano 1907 con le sue rare specialità di Genova.

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Un farmacista, un deputato e una Contessa

In Via Fossatello c’è una farmacia, grande, spaziosa e moderna.
E’ la farmacia Mojon ed è un luogo che ha una storia, una storia antica che merita di essere ricordata.
La famiglia Mojon proveniva dalla Spagna e annovera tra i suo componenti stimati scienziati.
Benedetto fu anatomista e fisiologo, Giuseppe era chimico, Antonio fu farmacista.
Il figlio di Antonio, Giuseppe, detto Pippo, ereditò la farmacia.
Il nome di Pippo Mojon ricorre spesso in un testo molto importante, il Diario Politico, edito da Giuffré,  di Giorgio Asproni,  deputato repubblicano che scrisse questa monumentale opera che narra, anno per anno, eventi e fatti dell’Italia del suo tempo, dal 1855 al 1876.
Asproni viaggiò molto, visse in diverse città d’Italia.
Fu a Torino, a Firenze, a Napoli. E a Genova, dove aveva casa in Castelletto.
E spesso scendeva giù, nei caruggi, andava a trovare il suo amico Pippo Mojon, che era sempre informatissimo sui movimenti di Mazzini e su molto altro, sovente, nel Diario Politico, il solerte farmacista riferisce ad Asproni notizie di varia natura.
Ad esempio, nel 1857, lo storico sardo narra della spedizione di Napoli, nella quale erano coinvolti Mazzini e Pisacane, annotando che Pippo Mojon avrebbe dovuto essere della partita.
I congiurati avevano da parte un arsenale, era stato persino minato il ponte del Frugarolo, per impedire l’accesso dal Piemonte alla Liguria.
Come si sa, quella spedizione fu un fallimento, Pisacane sbarcò a Sapri, e la sua impresa finì nel sangue.
Pippo Mojon, invece, rimase con Mazzini, si legge nel testo che tra la fine di giugno e gli inizi di luglio i due furono insieme in quel di Gavi.
E’ difficile ricostruire la biografia di Pippo Mojon attraverso i diari di Asproni, si tratta di 7 volumi, ognuno di essi è molto voluminoso, e si tratta di un diario, scritto a titolo personale e non inteso per essere divulgato in pubblico.
E’ una memoria, la memoria di una vita e della storia del tempo e come tale offre spunti personali ma anche riflessioni più approfondite.
Certo, Asproni non era il solo a frequentare quella farmacia.
Lì si andava per leggere i giornali, per incontrare gli amici.
E allora andiamo, nel dicembre del 1858, alla farmacia Mojon, insieme a Giorgio Asproni.
Ecco, il nostro amico si siede a un tavolino e scrive una lettera, indirizzata al deputato Valerio, nel quale riferisce di un suo recente incontro con Garibaldi.
E poi? Chi passa da quelle parti? Il deputato Sanna, i due se ne escono e vanno farsi una bella passeggiata, fino in Piazza Banchi, dove incontrano Depretis.
Eh, ma la passeggiata non è terminata!
Si sale su, per Via San Lorenzo, poi si passa per Via Carlo Felice, così si chiamava un tempo Via XXV Aprile, e si termina al Caffè della Concordia, dove Asproni si gode un capiller caldo mentre gli altri due prendono una bella costoletta.
Il deputato Sanna paga per tutti.

Palazzo Tursi, il loggiato, dove un tempo era il Caffè della Concordia

Ah, che bello, il mio giro per i caruggi combacia con quello del deputato Asproni!
Solo che io a Banchi non incontro mai nessuno!
Ecco, questo è il Diario Politico di Giorgio Asproni, c’è la storia ma anche la quotidianità ed è così che viene narrata la sua amicizia con Pippo Mojon, molte sono le visite a quella farmacia e molti gli aneddoti.
Pippo Mojon, poi viaggia molto, tra Genova e Torino, ad esempio, il suo impegno politico è costante ed attivo.
Oh, saranno anche stati uomini politici di alto livello, ma il gossip non mancava mai!
E questo Pippo Mojon, che a quanto pare sapeva tutto, ne racconta uno veramente gustoso.
Riguarda una nobildonna, la contessa Maria Martini, nota alle cronache perché, innamorata pazza di Garibaldi, pianterà il marito per andare al seguito dell’eroe dei due mondi.
Eh, cosa vuol dire aver ascendente sulle donne!
Questa contessa, a quanto pare, era un discreto peperino, e aveva avuto una relazione amorosa con il nostro Pippo e lei stessa aveva narrato al nostro quanto ora andrò a raccontarvi.
Era sposata, la nobildonna. Uh, che matrimonio! Il marito aveva per amante la balia, mentre lei era aveva una liason con il Conte di San Marzano.
Ah come lo amava, era il suo prediletto e ahimé morirà durante la guerra di Crimea!
Eh, la contessa era un bel tipino! Oltre a San Marzano, la Contessa frequentava l’Ambasciatore di Francia e quello d’Inghilterra, il conte Camillo Benso di Cavour e il suo stesso nipote.
Santo cielo, non avrà avuto un minuto libero!
E insomma, erano un po’ troppi! E cosa fece Maria Martini allora?
Diede appuntamento a tutti, circa alla stessa ora.
Ognuno di essi venne fatto accomodare in una stanza, al buio.
Maria si raccomandò con ciascuno: lei avrebbe battuto le mani e quello sarebbe stato il segnale di via libera.
E così fu: quattro porte di spalancarono sul salone, la contessa con un fiammifero accese una candela e gli astanti, stupefatti, rimasero con un palmo di naso.
La questione si risolse allegramente, tutti si fecero una grassa risata, il solo che non la prese affatto bene fu il Conte di Cavour, che prese a male parole il povero nipote.
Eh, la contessa, che donna!
In quella farmacia, in quegli anni, si raccontavano queste storie.
La storia non è fatta solo di date e di battaglie, è fatta anche di persone, di umane debolezze e di virtù.
Pippo Mojon e Maria Martini si scrissero lettere per molti anni.
Giorgio Asproni, a più riprese, tornerà nella farmacia del suo amico.
A scrivere lettere, a leggere i giornali, a raccogliere notizie e novità.
Nella farmacia Mojon, in Via di Fossatello.

Via Fossatello

Jessie White e Alberto Mario, Miss Uragano e il patriota

Era inglese, appassionata e idealista, in anni nei quali gli ideali erano la linfa delle azioni degli uomini.
Non era bella Jessie, anzi era piuttosto mascolina, le immagini di lei rimandano la figura di una donna alta, dai tratti marcati e dal portamento altero.
Jessie White aveva la passione nel cuore, la passione per una causa che forse appare strano che lei abbia fatto sua: l’Unità d’Italia.
E fu l’incontro con Garibaldi e poi con Mazzini ad accendere in lei questa fiamma, un fuoco che mai si estinguerà.
E’ una giovane donna, ha molte aspirazioni, vorrebbe diventare medico.
E’ moderna Jessie, emancipata e dalla mente aperta.
Mazzini è in cerca di appoggi, ha conosciuto Jessie all’inizio del 1856 e ha riconosciuto in lei quel furore, quella veemenza che lo porteranno a chiamarla con un appellativo che la descrive appieno: Miss Uragano, così la chiamerà e con questo nome Jessie passerà alla storia.
E’ lei che viene prescelta per diffondere gli ideali dell’Unità in Inghilterra, è diventata giornalista Jessie e sul Daily News pubblica i suoi articoli a sostegno dell’Unità, e sono densi di parole cariche di significato e della potenza che solo chi crede in ciò che fa è in grado di esprimere.
Inoltre, sempre per promulgare il verbo di Mazzini, Jessie farà un ciclo di conferenze in giro per le isole britanniche, durante il quale raccoglierà  fondi per la causa italiana.
Ed è a Genova, nel giugno del 1857: ha venticinque anni ed un destino che l’attende.
Nella città ligure si prepara la spedizione di Sapri, il cui scopo è sollevare il meridione.
Jessie è una donna d’azione, dotata di grande personalità non è certo donna da tirarsi indietro e partecipa attivamente al piano di Carlo Pisacane, l’impresa finirà nel sangue ma è nelle mani di Jessie che Pisacane ha affidato il suo testamento politico, quello nel quale egli esprime e spiega cosa lo spinga a rischiare la sua vita stessa: un ideale.
Ed è per il medesimo ideale che Jessie White verrà arrestata e reclusa nel carcere di Sant’Andrea, dove rimarrà per quattro lunghi mesi.
E’ il 4 Luglio del 1857 e dietro le sbarre, insieme a Jessie, c’è l’uomo del destino.
Lui è originario di Lendinara, il suo nome è Alberto Mario, è amico di Mazzini, lo ha anche ospitato in gran segreto nella sua casa ed è in prigione per gli stessi motivi per cui vi si trova Jessie.

Alberto Mario, non più giovane 
immagine tratta da Della vita di Giuseppe Mazzini di Jessie White Mario
volume di mia proprietà

Si conoscono da qualche settimana e la prigionia non separa, unisce.
Lui le scrive lettere clandestine, le idee, i pensieri collimano, vanno in parallelo, il sentimento cresce, li scarcerano e a dicembre saranno sposi.
Uniti nella politica, uniti nella vita e nell’amore, che trova sempre modi misteriosi per svelarsi, saranno compagni per il resto dei loro giorni.
E saranno convulsi, gli anni a venire.
Jessie viene processata la tartassano di domande, le Autorità vogliono conoscere a fondo la natura dei suoi rapporti con Mazzini, con Pisacane e con la sua donna, Enrichetta di Lorenzo.
Mazzini? E’ il Cristo del Secolo, così risponde fiera Jessie White Mario.
Torna in Inghilterra, è il 1859 e con il marito decide di andare in America, per diffondere anche là quello in cui crede.
Ma è l’Italia il destino di Jessie.
E’ il 1860, Garibaldi e i suoi Mille salpano alla volta della Sicilia.
A maggio  il Nizzardo ha istituito a Palermo  un governo provvisorio.
Alberto e Jessie si mettono in gioco, un’altra volta, ma le Autorità vorrebbero fermarli, c’è il rischio concreto di finire di nuovo dietro le sbarre.
Interviene Garibaldi stesso, che Cavour si metta il cuore in pace, non intende assolutamente consegnare alla polizia due patrioti tanto coraggiosi e valorosi.
Restano i coniugi Mario, lui seguirà una scuola militare stabilita a Palermo da Garibaldi stesso, alla quale avranno accesso i trovatelli della città, Jessie invece presta la sua opera d’infermiera, unica donna al seguito di Garibaldi.
C’è lei sui campi di battaglia, è lei a bendare le ferite dei garibaldini, negli ospedali da campo, c’è lei tra quei giovani valorosi , Jessie è a Monterondo, a Mentana, e poi, in anni successivi a Digione, sempre al seguito di Garibaldi.
Instancabile, coraggiosa, guidata da una fede incrollabile.
Osservatrice attenta, scrisse le biografie dei grandi del suo tempo, di Cattaneo e di Bertani, di Garibaldi e di Mazzini ed un privilegio grande poter leggere le vite di questi uomini nelle parole di una donna di tale spessore che sa rendere dei ritratti unici e particolari.
Tra le molte sue opere, Jessie White si interessò anche al sociale, memorabile è un testo che scrisse nel 1877, dal titolo La miseria in Napoli, se lo desiderate lo trovate qui.
Provate a leggere qualche riga, qualche pensiero così come ce lo ha lasciato Jessie, una donna di un altro secolo eppure così evoluta e straordinariamente moderna, dalla quale abbiamo ancora molto da imparare.
Alberto Mario morì nel 1883, ma Miss Uragano terrà in vita la sua memoria, se lo terrà accanto ancora molti anni e chiederà soccorso a un amico di lui, Giosuè Carducci, per raccogliere in un unico volume gli scritti da Alberto, preceduti da una biografia scritta dalla stessa Jessie.
Il poeta le sarà poco d’aiuto però, sta stilando un’edizione dell’opera di Giacomo Leopardi.
Jessie non perdona il vecchio amico del suo perduto amore e gli fa recapitare un lapidario biglietto con queste parole:
Stupendo il Leopardi. Peccato che Alberto non possa leggerlo.
Il libro uscirà comunque nel 1901.
Restano pochi anni a Jessie, li trascorre in semplicità, ha scarsi mezzi economici, quando era giovane certo non ha pensato ad accumulare denaro, no.
Aveva altri pensieri, Jessie, un amore, una nazione da costruire, un’Italia ideale, ancora da sbocciare, una bandiera che non era la sua, una bandiera che oggi sventola dalle nostre finestre anche grazie a lei.
Jessie White vedova Mario, come usava firmarsi negli ultimi anni, mori il 5 Marzo del 1906.
Riposa nel cimitero di Lendinara, a fianco ad Alberto, l’uomo al quale in vita, in ognuno dei suoi giorni, è sempre stata accanto.

La fioraia di Vico del Duca

Vico del Duca è un caruggio che da Via Garibaldi scende giù, fino alla Maddalena.
A quei tempi Via Garibaldi, la strada nella quale svettano eleganti i Palazzi dei Rolli, ancora si chiamava Strada Nuova e l’eroe dei due mondi che le regalerà il nome ancora non ha compiuto la sua più grande impresa, lo sbarco dei Mille in terra di Sicilia.
E’ l’anno 1857 e Genova è al centro della scena politica.
In una di queste case di Vico del Duca abita una ragazza, si chiama Delfina e viene da un paesino del Piemonte.

Oh, che impressione le ha fatto vedere Genova!
Le stradine strette e poi, laggiù il mare.
Il mare, quando non l’hai mai visto e te lo raccontano, lo immagini.
Quando non lo hai mai visto, lo sogni.
E quando finalmente lo hai di fronte, non ti bastano le parole per descrivere l’incanto, lo stupore, la meraviglia che ti fa sobbalzare il cuore nel vedere la linea dell’orizzonte che si perde nel cielo.
Così fu per Delfina, il mare, il sogno, il silenzio.

Delfina era un’umile fioraia, con il suo cestino ogni mattina percorreva Vico del Duca passava sotto l’archivolto e arrivava in Strada Nuova, là dove stavano i signori, le nobildonne e tutto il bel mondo dell’alta società.

E lì, in Strada Nuova, c’è uno dei luoghi più eleganti della città, il Caffé della Concordia, un locale frequentato da letterati, politici, scrittori ed intellettuali.

E quei signori, eleganti e azzimati nelle loro marsine scure, quando uscivano dal caffé, si fermavano spesso da Delfina, e compravano da lei i fiori, le margherite di campo e le violette, raccolte in piccoli mazzetti coronati di foglie e richiusi da fili d’erba.
Fra i tanti acquirenti c’è anche un giovane, il suo nome è Giovanni e viene dalla Calabria.
E’ uno dei molti rifugiati politici che in quegli anni trovano riparo nella città ligure, è una presenza fissa nei circoli di emigrati che pullulano a Genova.
E’ amico di Pisacane, di Pilo, di Savi, di Mezzacapo, negli ambienti frequentati dagli esuli è tenuto in gran considerazione.
Lo si vede spesso al Caffé della Concordia, la sua presenza ha uno scopo ben definito: ci si reca regolarmente, su istruzione di Carlo Pisacane, per raccogliere finanziamenti per la spedizione di Sapri, l’impresa che Pisacane metterà in atto nel mese di giugno e che è destinata a finire nel sangue.
Giovanni è un giovane uomo di belle speranze, uno spirito appassionato, un animo incline alla ribellione e votato alla causa dell’Unità.
E’ poco più che ventenne e quando il suo sguardo incontra quello di Delfina, il tempo si ferma.
Sono due mondi, distanti eppur paralleli, un uomo del profondo sud e una fanciulla che proviene dalle terre dei Savoia, una ragazza che nulla sa di politica, di teorie, di cospirazioni.
E accadde giorno per giorno, come sempre è la vita.
Le parlò, prese l’abitudine di accompagnarla verso casa, si poteva vederli camminare uno accanto all’altra giù per Vico del Duca, quando la luce del giorno cominciava a declinare verso il buio.

Delfina era affascinata dal giovane calabrese, lui l’ammaliava con i suoi ideali, con il fervore che guizzava nei suoi occhi scuri e nel tono della sua voce così partecipe e appassionato.
Nacque l’amore e con esso la militanza politica e Delfina divenne una staffetta, colei che portava i biglietti cifrati che gli esuli,  rifugiati in varie parti della città vecchia, usavano per comunicare.
Se ne usciva di casa, con la sua cesta di fiori sotto il braccio, con speranza guardava verso il blu del cielo che si intravede in Vico del Duca e, solerte, adempiva ai suoi doveri.

E’ la forza dell’amore, la potenza degli ideali e della fede in se stessi.
E furono giorni davvero concitati quelli, oh sì!
C’era un gran fermento tra coloro che erano pronti all’azione che si sarebbe messa in atto di lì a breve, alcuni sarebbero partiti con Pisacane, altri erano destinati ad altre missioni.
Giovanni prese il mare, su un vapore, con direzione Napoli, parecchi giorni prima di quel fatale 17 giugno, gli era stato affidato il compito di prendere contatti con i ribelli  nella città partenopea e quando lasciò Genova, Delfina rimase qui ad aspettarlo, nella casa che ospitava i suoi sospiri e i suoi languori.

E venne quel giorno.
Venne la fine, la tragedia, la disfatta, la morte di Pisacane e dei suoi compagni.
Da Napoli le notizie tardavano ad arrivare, sapete, quei silenzi assordanti che ti martellano il cervello, quando la sola cosa che ti resta è l’attesa, quando il solo pensiero che ti conforta è il ricordo.
E venne quel giorno, il giorno in cui lui tornò.
Tornò in Vico del Duca, da Delfina, la fanciulla che vendeva i fiori in Strada Nuova.
Tornò per non andarsene più.

In epoca risorgimentale il Caffé della Concordia si trovava dove ora è il Comune, in Via Garibaldi.
In quel caffè si tentò di raccogliere fondi per finanziare l’impresa di Sapri.
A Genova vi erano esuli ed emigrati politici che venivano da ogni parte di quell’Italia ancora da unire, molti di loro erano calabresi.
I rifugiati, coinvolti in cospirazioni politiche, comunicavano tra di loro con biglietti cifrati, al Museo Mazziniano è conservato un documento che riporta uno di questi alfabeti.
Vissero qui Pisacane, Pilo, Savi e Mezzacapo.
La fioraia Delfina e il patriota Giovanni, invece, sono una mia romantica invenzione.
Avevo il desiderio di mostrarvi Vico del Duca, un caruggio splendido e particolare, riguardo al quale non conosco fatti curiosi ed interessanti.
E in questi giorni così cupi e bui per la mia città, sentivo la necessità di un sogno, di un’immaginazione al di là dei fatti reali, al di là della vita e del tempo presente.
Una ragazza, un cestino di fiori, un patriota, l’amore e la speranza,  in Vico del Duca, un caruggio che scende verso Via della Maddalena.

Rosalino Pilo e Rosetta Borlasca, l’amore al tempo della rivoluzione

Era bello, affascinante e focoso.
Rosalino Pilo, siciliano, nato nel 1820, fu uno dei protagonisti del nostro Risorgimento.
Vita avventurosa la sua, come spesso accadeva a quei tempi.
Di famiglia di nobile lignaggio, dapprima fu tra i capi del movimento indipendentista siciliano, e nel 1849, in seguito al fallimento di questa insurrezione, lasciò la sua isola.
Se ne partì, alla volta di Genova, forse a bordo di un vapore, come si usava all’epoca, con al seguito i suoi denari e un quadro raffigurante la deposizione della Croce attribuito al pittore Giovanni Velasquez, del quale era venuto in possesso alla morte del padre.
Prese casa in Vico Casana, al civico nr 9, il palazzo che nell’immagine si nota subito dopo l’insegna del ristorante.

A Genova Rosalino conosce il capo dei reazionari, il ricercato più ambito, Giuseppe Mazzini e ci mette poco ad affiliarsi al movimento, per finanziare le iniziative del partito d’azione Pilo proporrà anche a Mazzini di vendere a Londra il suo prezioso Velasquez per ben 800 lire.
E a Genova Rosalino, oltre alla militanza politica, trova l’amore.
Di lui scrive Felice Venosta (Rosolino Pilo e la rivoluzione siciliana – 1863) :

“La donna è l’oasi per l’esule. Rosolino amava potentemente, perdutamente come sogliono i figli del mezzogiorno.”

Rosalino Pilo
Immagine tratta da “Vita di Giuseppe Mazzini” di Jessie White Mario, 1886
volume di mia proprietà

Lei si chiama Rosetta Borlasca, appartiene a una famiglia benestante, il padre è notaio e uomo di molte sostanze.
Rosetta è sposata, con un certo Barnaba Agostino Quartara, però, sapete come accade.
Ti ritrovi accanto qualcuno per cui non ti è mai battuto il cuore, uno che altri hanno scelto per te e tu accetti di vivere una vita non tua ma poi, un giorno, si presenta a te un siciliano con gli occhi di fuoco, con quell’ardore, quell’eleganza, e ti fa sentire quel calore che non credevi che avresti provato mai più. E allora voi, al posto di Rosetta, cosa avreste fatto?
Lei scelse Rosalino, quell’amore grande e possente che sapeva infrangere tutti i confini e le regole.
Il marito però, preso dalla gelosia, andò a farsi le sue ragioni con il padre di Rosetta che, tra gli altri esuli, aveva incautamente accolto in casa sua anche Rosalino Pilo.
Una sera, Rosalino e i suoi amici, come di consueto, si presentano in casa Borlasca.
Inaspettatamente, non si permette loro di entrare: la signora è malata, viene detto, così l’allegra compagnia si dirige altrove.
Rosalino non sospetta nulla, finché un giorno, alla posta, incontra il padre di Rosetta che lo invita a far due passi.
Il signor Borlasca, a quanto pare, è uno che non le manda a dire ed esordisce così: “Signor Pilo, per di lei causa mio genero è fuggito di mia casa.”
Rosalino tenta di giustificarsi, dice che lui mai avrebbe attentato alla virtù di Rosetta, il signor Borlasca è proprio in errore e certo, se può essere utile a calmare le acque, lui è disposto ad allontanarsi da Genova per una ventina di giorni, così che il Quartara possa far sbollire la rabbia.
Il padre di Rosetta, grato, tirò un sospiro di sollievo e così Rosalino si dispose a partire per Nizza.
Il Quartara però non si dava pace e prima che Pilo lasciasse Genova, gli fece recapitare una lettera dai toni molto aspri e offensivi, in cui lo accusava di prendersi gioco di lui e di essere un vile ed un infame e di dichiararsi pronto per una sfida a duello.
Ci si apprestò così all’impresa, che doveva avvenire fuori dagli stati sardi, ma il Quartara, vigliaccamente, non si presentò. Fece di peggio: con una lettera anonima svelò alla questura lo pseudonimo usato da Rosalino, facendo rivelazioni anche su altri suoi amici.
E poi sapete come accade.
Rosalino negò fino allo stremo ogni coinvolgimento con Rosetta ma, alla fine, quando lei rimase incinta, toccò ammettere la verità.
E il matrimonio saltò per aria, ovviamente.
Rosetta con il frutto del suo amore tornò a casa del padre e promise di non rivedere mai più Rosalino.
Ma poi, sapete come accade, Rosetta non fu di parola.
E’ l’amore, sempre uguale nei secoli. E le lettere, le lettere che Rosetta scrisse a Rosalino sono cariche di quel sentimento, di parole semplici eppure eterne.
Lei scrive, scrive tanto. Si strugge, si appassiona, sospira.
Io ti amo, non posso vivere senza di te, morirei senza di te.
Sono queste le parole, eterne in quanto semplici.
E pensare che per un periodo, nel passato, Rosalino aveva creduto di non essere riamato, come narra sempre il Venosta:

e si forte fu il suo amore che il sospetto di non essere pienamente corrisposto fu sufficiente per sentirsi spezzare il cuore, per cadere in una lunga malattia per perdere quasi la vita.

Oh, no! Rosetta ama Rosalino!
Ma Rosalino, oltre ad essere l’amore di Rosetta, è uomo d’azione, impegnato in prima linea.
Pilo è uno degli uomini del gruppo di Carlo Pisacane colui che, nel 1857, precedendo le gesta di Garibaldi, tenterà di sollevare il meridione con la fallimentare spedizione di Sapri, conclusasi con un massacro.
Che pianti, povera Rosetta!
E’ preoccupata, si può capirla, non vuole separarsi da lui per nessuna ragione al mondo e appena comprende cosa sta per accadere nella sua disperazione minaccia di suicidarsi.
E che fanno gli uomini quando una donna gli mette i bastoni tra le ruote? Mentono.
E Rosalino mente, per tranquillizzare Rosetta, quando è il momento di partire le fa credere che sta andando il Sicilia per vendere il famoso Velasquez.
Però sapete come accade, quando si ama, si vuole essere ascoltati, compresi, consolati.
Anche se si è eroi, accade. E così Rosalino dice a Rosetta la verità.
Lei piange, si dispera, lo supplica di non andare, lo tormenta con la sua apprensione, gli fa promettere di tener cara la propria vita, gli fa giurare che tornerà.
E così sarà.
Il progetto di Pisacane per l’impresa di Sapri era il seguente: Pisacane, Falcone, Nicotera e un gruppo di fedelissimi si sarebbero imbarcati su un piroscafo per Tunisi, il Cagliari in partenza da Genova il 17 Giugno 1857. L’intenzione era quella di dirottare il piroscafo su Ponza.
A Rosalino Pilo era stata affidato il compito di provvedere al rifornimento delle armi.
C’era già stato un precedente tentativo, fallito il 6 giugno, in quanto la barca su cui Rosalino trasportava le armi si trovò nel pieno della tempesta che causò la perdita di fucili e munizioni.
La seconda volta non andò meglio.
Rosalino Pilo, con una ventina di uomini, prese il mare su delle barche a vela, sulle quali erano state caricate le armi.
Secondo i piani, avvrebbero dovuto incrociare il piroscafo al largo di Sestri Levante ma Rosalino e i suoi compagni, inesperti di mare, mancarono di portarsi la strumentazione necessaria per la navigazione e persero così l’orientamento, finendo per approdare nei pressi di Portofino.
I loro compagni, imbarcati sul Cagliari, andarono incontro alla disfatta e alla morte, dei tre capi della spedizione solo Giovanni Nicotera rimase in vita.
Pilo tornò a Genova, ma a seguito della fallita insurrezione come Mazzini finì nel mirino della polizia e dovette riparare a Malta.
Tornò quando seppe che Garibaldi era sbarcato a Palermo con i suoi Mille.
A loro si aggiunse anche Rosalino Pilo: le cronache narrano che abbia combattuto strenuamente fino a quando, il 21 Maggio 1860, a Monreale,  fu colpito a morte da una pallottola nemica.
Sei giorni dopo l’esercito di Garibaldi liberò la città di Palermo.
Nessuno sa che fine abbia fatto il famoso dipinto di Velasquez.
Nessuno scrive cosa ne sia stato di Rosetta, rimasta sola senza il suo amore, il suo Rosalino, il solo che sapesse farle battere il cuore così forte.
Ma sapete come accade, io lo so.
Io so che pianse.

Carlo ed Enrichetta, una storia d’amore e di rivoluzione

A Genova, al civico nr 4 di Via Colombo, c’è una casa che conserva dei ricordi.
In quella casa ebbe dimora Carlo Pisacane, quando soggiornò nella nostra città.
In quella casa passarono Bertani, Mercantini e Cosenz.
In quella casa, la donna da lui amata, Enrichetta Di Lorenzo, ricevette la notizia della sua morte, avvenuta a Sanza nel giugno del 1857.

Via Colombo
La vicenda umana di Carlo ed Enrichetta si intreccia inesorabilmente agli eventi politici dell’epoca, di cui Pisacane fu appassionato protagonista.
Nato a Napoli nel 1818 da una famiglia di origini aristocratiche, fervente promulgatore del pensiero socialista, rivoluzionario e patriota, si formò al collegio della Nunziatella e militò per alcuni anni nell’esercito Borbonico.
Appena dodicenne incontrò per la prima volta Enrichetta, per rivederla solo sei anni più tardi ma, sebbene allora fosse già innamorato di lei, le loro strade si separarono nuovamente.
La Di Lorenzo, infatti, andò in sposa ad un cugino di Pisacane, il conte Dioniso Lazzari, dotato di poco fascino ma di molte sostanze, ed ebbe da lui tre figli.
Pisacane, per parte sua, continuò la sua carriera militare e divenne un habituè dei salotti del bel mondo napoletano, senza mai scordare colei che gli aveva scavato un solco nel cuore.
Assiduo frequentatore di casa Lazzari, in più occasioni rivide Enrichetta, che prese a nutrire per lui lo stesso appassionato sentimento, pur rimanendo fedele a quel marito che detestava.
Un evento, improvviso e inaspettato, fece precipitare la situazione.
Nel corso di una rapina, Carlo rimase ferito da tre coltellate e, durante la sua lunga convalescenza, Enrichetta si premurò per assisterlo.
Forte è il sospetto che il mandante fosse il conte Lazzari, venuto a conoscenza della tresca che la moglie aveva imbastito con Pisacane.

Carlo PisacaneImmagine tratta da Della vita di Giuseppe Mazzini di Jessie White Mario
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Fu allora, che tutto ebbe inizio.
Fu allora che i due, innamorati quanto impazienti, animati da quel fervore che impediva loro di star lontani, progettarono la fuga da Napoli, verso una nuova vita.
Lui però era un ufficiale dell’esercito e lei una donna sposata.
Lo scaltro Pisacane, così, mise in atto un piano.
Contattò un ex domestico della Nunziatella e offrì, a lui e alla moglie, un impiego per un lungo viaggio. L’uomo accettò e, come richiesto da Carlo, consegnò a lui il suo passaporto e quello della sua consorte.
E con quei documenti, il disertore dell’esercito e la sua compagna, nel febbraio del ’47 si imbarcarono sul vapore Leonidas con destinazione Livorno, città che lasceranno in tutta fretta per riparare a Londra, scampando così alle grinfie della polizia borbonica, messa sulle loro tracce dal conte Lazzari.
Intensi quanto drammatici furono gli anni che seguirono.

Carlo Pisacane (2)

Carlo Pisacane
Opera esposta all’Istituto Mazziniano – Museo del Risorgimento

Dall’Inghilterra si spostarono in Francia, dove vennero arrestati con l’accusa di adulterio e di uso di documenti falsi.
Enrichetta, eternamente divisa tra l’amore per il suo uomo e il rimpianto per i suoi figli, lasciati a Napoli con il padre, combatterà per tutta la vita con il suo desiderio di essere moglie e madre allo stesso tempo, con i problemi economici e con l’amarezza di sentire su di sé il disprezzo della sua famiglia d’origine.
A Parigi entrarono a far parte del bel mondo, frequentarono il salotto di Cristina di Belgioioso, conobbero George Sand e Victor Hugo.
Afflitti dalla mancanza di denaro, furono soccorsi dai circoli di emigrati, ma questo aiuto non bastò e Carlo decise di arruolarsi nella legione straniera.
Alla nascita della loro prima figlia, Carolina, Enrichetta subì dai suoi famigliari il più odioso dei ricatti; se le occorre aiuto, le viene detto, abbandoni quella bambina, e verrà nuovamente accettata nella sua casa.
Non cede Enrichetta, resta fedele al suo amore e al suo uomo.
Di lì a poco la piccola Carolina morirà ed Enrichetta rimarrà al fianco del suo Carlo, sempre.
Lo seguirà e nel loro girovagare lui la lascerà spesso sola per seguire i suoi ideali e i suoi doveri di patriota.

Tricolore
Saranno a Milano, in occasione dei moti del ’48, e a Roma, quando lui aderisce alla Repubblica Romana.
Poi a Marsiglia, ospiti di Mazzini.
E ancora a Genova, dove Enrichetta consumò il suo unico tradimento, presto perdonato, con quell’Enrico Cosenz che diventerà Generale di Giuseppe Garibaldi.
Nel 1852 diede alla luce Silvia, figlia non cercata ma poi molto amata che Pisacane, anticonformista e mangiapreti, si rifutò di far battezzare.
Gli ultimi anni di Carlo Pisacane furono dedicati completamente all’organizzazione della sfortunata spedizione di Sapri con la quale sperava di sollevare le popolazioni del Regno di Napoli e nella quale perse la vita insieme alla maggior parte dei pochi ardimentosi che ebbero la fede e il cuore di seguirlo.

SapriSpedizione di Sapri – L’uccisione di Pisacane
immagine tratta da Della vita di Giuseppe Mazzini di Jessie White Mario

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Enrichetta, rimasta sola con Silvia, divenne una sorta di icona dei patrioti, che la protessero e l’aiutarono ad affrontare le difficoltà nelle quali versava.
La storia di Pisacane e delle sue rocambolesche imprese potete leggerla nel libro “Eran Trecento” di Gustavo Bocchini Padiglione e Domizia Carafoli, edito da Camunia.
La sua vita è stata come un romanzo pieno di colpi di scena e i due autori la narrano con ritmo e sapienza, con una scrittura fluida e piacevole che avvince il lettore dalla prima pagina all’ultima.
Di lui, del suo pensiero e delle sue idee, restano molti scritti appassionati e densi, come queste parole, che terminano il suo testamento politico:

Io sono persuaso, se l’impresa riesce, otterrò gli applausi generali: se soccombo, il pubblico mi biasimerà.
Sarò detto pazzo, ambizioso, turbolento, e quelli, che nulla mai facendo passano la loro vita nel criticare gli altri, esamineranno minuziosamente il tentativo, metteranno a scoperto i miei errori, mi accuseranno di non esser riuscito per mancanza di spirito, di cuore e di energia… Tutti questi detrattori, lo sappiano bene, io li considero non solo incapaci di fare ciò che si è da me tentato, ma anche di concepirne l’idea.

Ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell’animo di questi cari e generosi amici, che mi hanno recato il loro concorso ed hanno diviso i battiti del mio cuore e le mie speranze: che se il nostro sacrifizio non apporta alcun bene all’Italia, sarà almeno una gloria per essa l’aver prodotto dei figli che vollero immolarsi al suo avvenire.

Sapri (2)

Cimitero Monumentale di Staglieno – Tomba di Carlotta Benettini