Mille baci, poi altri cento

Dammi mille baci, poi altri cento, così scriveva il poeta Catullo alla sua amata.
Un bacio può rovinare una vita, sosteneva Oscar Wilde, che a causa della propria passione vide la sua vita fatta in pezzi.
Il bacio, la prima espressione del sentimento e dell’amore.
Mille baci, poi altri cento, nella storia di Hollywood.
E viene subito in mente Clark Gable che tiene a sé Vivien Leigh in Via col Vento e il ricordo va subito a quel tramonto che infuoca l’orizzonte che fa da scenario al loro primo indimenticabile bacio.
E poi il bacio languido e sensuale tra Ingrid Bergman e Cary Grant in Notorious, uno dei più noti della storia del cinema.
Kiss, kiss me così cantava la bionda Marilyn in Niagara e numerosi sono i suoi baci mai dimenticati.
La ricordate in quel film, con l’impermeabile giallo, sotto alle cascate?
E vi rammentate di lei, con l’abito scintillante di lustrini, mentre le sue labbra sfiorano quelle di Tony Curtis in A qualcuno piace caldo?
I wanna be kissed by you, nobody else but you, cantava Norma Jean in quel film.
Baci languidi, quelli tra Humphrey Bogart e Lauren Bacall, coppia sullo schermo come nella vita. Ricordate come lui la stringe a sé in una celebre scena di Acque del sud?
Marito e moglie erano anche Paul Newman e Joanne Woodward, uno schiaffo, un bacio e un fremito sul set di La lunga estate calda.
Baci voluttuosi, come quelli di Marlon Brando a Eve Marie Saint in Fronte del porto, seducenti come quelli di Rodolfo Valentino alle dive del muto, romantici e carichi di promesse come quel bacio scambiato sulle scale antincendio tra Richard Gere e Julia Roberts nella scena finale di Pretty Woman.
Baci casti che hanno tutta la purezza delle fiabe disneyane, il bacio del principe alla Bella Addormentata e quello che riceve Biancaneve dal suo promesso sposo.
Baci che non conoscono attesa, tra Jack Nickolson e Jessica Lange, sul tavolo della cucina, in Il Postino suona sempre due volte.
Baci accarezzati dal vento, tra Leonardo di Caprio e Kate Winslet, in mare aperto sul Titanic.
Baci sotto la pioggia di New York, tra George Peppard e Audrey Hepburn, in Colazione da Tiffany.
Baci alle isole tropicali, nel film Gli ammutinati del Bounty, tra Marlon Brando e la sua moglie hawayana, Tarita Teriipia, tra collane di fiori e palme che ondeggiano sotto il sole.
Baci sulla sabbia, mentre il mare travolge i due amanti, Burt Lancaster e Deborah Kerr, in Da qui all’eternità.
Baci pieni di desiderio, tra James Dean e Natalie Wood, in Gioventù bruciata.
Mille baci, poi altre cento, nella storia di Hollywood.
Baci alla scoperta dell’amore, accanto agli scogli, durante le vacanze estive, tra John Travolta e Olivia Newton-John, in Grease.
Baci tra fiaccole accese che illuminano il buio della notte, tra Matthew Macfadyen e Keira Knightley, baci lenti e innamorati, in Orgoglio e pregiudizio.
Baci sotto il cielo di oriente, all’ombra di un grande albero, tra William Holden e Jennifer Jones, in L’amore è una cosa meravigliosa.
Baci che sciolgono un’algida eleganza nella passione, tra James Stewart e Kim Novak in Vertigo.
Baci  in bianco e nero, a Casablanca, tra Humphrey Bogart e Ingrid Bergman.
Baci di commiato, tra Gerard Depardieu in procinto di lasciare gli Stati Uniti e Andie Mac Dowell, nella scena finale di Green Card.
Baci di fine anno, baci che inumidiscono gli occhi per la commozione, baci che preludono a un nuovo inizio tra Billy Crystal e Meg Ryan, in Harry ti presento Sally.
Baci tanto desiderati, mentre si gioca a modellare la creta, tra Patrick Schwayze e Demi Moore in Ghost.
Mille baci, poi altri cento, nella storia di Hollywood.
E potrei continuare ancora.
Ogni bacio è unico, non ne esistono due uguali.
E nella nostra lingua nemmeno esiste un sinonimo.
Mille baci e poi altri cento.
I baci di Hollywood, baci che ci hanno fatto sognare e sospirare, immaginare e desiderare.
E tra tutti ne ricordo uno, che mi è più caro degli altri.
E’ il bacio più sincero e pulito, il più spontaneo e il più tenero.
Lei ha sette anni, il suo nome è Drew Barrymore, ha i codini e porta una maglietta a righe.
Lui è un alieno, E.T.
Un piccolo bacio, sulla punta del naso, il bacio più dolce di Hollywood.

La volpe e la bambina

La volpe e la bambina è un film del 2008, opera del regista francese Luc Jacquet, che già diresse La marcia dei pinguini, uno splendido documentario nel quale si narrano le avventure antartiche dei pinguini imperatori.
Il suo secondo film, invece, ha un’atmosfera più raccolta e famigliare, essendo ambientato nella Francia dei giorni nostri, in un imprecisato paese di montagna.
Una volpe e una bambina sono le sole protagoniste di questo film incantevole, di grande atmosfera e di forte impatto emotivo, per la grande intensità con la quale viene rappresentato il rapporto tra l’uomo e la natura.
La bambina è deliziosa, con le lentiggini e i capelli fulvi come il pelo di quella volpe con la quale desidera fare amicizia.
Ed è questo il tema portante del film, il legame che si crea tra due creature, l’armonia tra due mondi, raggiunta e conquistata tramite la curiosità e il gioco.
Il gioco e l’entusiasmo di fronte a nuove esperienze, si assiste emozionati alle avventure di questa bimba che nulla teme, da piccoli si è sempre un po’ spregiudicati,  certo i bambini che vivono a contatto con la natura sono più fortunati di coloro che abitano nei grandi centri urbani.
La bambina del film è immersa il un mondo fantastico, uno scenario da fiaba.
Prati, foreste incontaminate, alberi che si arrampicano verso il blu.
Incuriosita da tanta bellezza sono andata a cercare dove fosse stato girato il film ed ho scoperto che le riprese sono state effettuate in Francia, al Plateau de Retord e sulle montagne del nostro Abruzzo.
Le montagne, l’avvicendarsi delle stagioni, la neve e poi il verde accecante dell’erba.
La volpe, prima diffidente e poi più fiduciosa, la volpe dal pelo lucido e morbido che corre, fugge e si nasconde.
E la bambina dietro, anche lei di corsa, quanto ci tiene alla sua volpe!
E da moderna pollicina, lascia dietro di sé del cibo, per attirare la volpe.
Poi si siede su un albero, ad aspettarla e così farà nei giorni a venire, con costanza e testardaggine.
E con la forza dell’amore, quello che guiderà la mano di questa bimba ad accarezzare la volpe, con gesti affettuosi e tanto desiderati.
L’entusiasmo dell’infanzia, la natura, il mondo degli animali e i suoi pericoli.
Gli orsi e i lupi, la lince e l’aquila, e poi le altre creature del bosco, come la donnola e il cervo.
E poi un fiume, l’acqua che scorre, le rane e i rospi che saltano e lei, la bambina che cerca di prenderli in mano, questa per me è una delle scene più dolci del film, racchiude in sé tutta la pienezza del gioco, l’appagamento che si prova con il puro e semplice divertimento.
Ve lo ricordate com’era bello giocare? Se lo avete dimenticato, vedendo questo film ve ne ricorderete.
Ma di cosa è fatta l’amicizia che nasce tra la volpe e la bambina?
Di affetto e di silenzi, di complicità e di incomprensione, di distacchi e di ritorni, ma anche di una certa ingenuità infantile, soprattutto nell’ostinarsi a voler addomesticare una volpe.
La natura ha le sue regole, che spesso non collimano con quelle dell’uomo.
E qui è il momento di difficoltà, quelli che segna la strada verso la crescita, il passaggio dall’infanzia all’età adulta.
Una volpe, una bambina.
E le parole di lei, divenuta donna: mi ha insegnato la differenza tra amare e possedere.

Hubert Flynn, l’uomo che si trasformò in topo

Hubert Flynn abita a Dublino e fa il garzone di panetteria.
Ha una moglie, una giovane figlia adolescente e un figlio che vuole farsi prete.
Hubert, da buon irlandese, ama la birra e trascorrere ore serene al pub, con una bella pinta davanti ed è proprio al pub che accade il fattaccio: inspiegabilmente il pover’uomo si ritrova trasformato in un topo bianco.
Signori, per la regia di Steve Barron, questa è la trama di Rat, un film forse poco noto dalle nostre parti che è una vera perla di umorismo e che vi farà ridere fino alle lacrime.
A tratti è puro nonsense, assolutamente geniale.
E insomma, è dura essere trasformati in topi!
Il povero Hubert, poi, ha a che fare con una moglie decisamente bisbetica, che non gliene fa passare una neppure da roditore.
Tanto per fare un esempio, all’inizio del film l’allegra famigliola è riunita intorno al tavolo per la cena e il poverino se ne sta di fronte ad un piatto di sanguinaccio senza muovere un pelo, mentre la moglie Conchita lo redarguisce perchè mangi, tra le proteste della figlia che cerca di spiegare alla madre che il poverino non ce la fa!
Ma Conchita non sente ragioni e con il dito minacciosamente alzato apostrofa così il suo piccolo consorte:
– Tu con me non l’hai spuntata da uomo, figurati se mi freghi da topo!
Capito il genere?
A casa poi, si presenta un giornalista: c’è da fare i soldi con la vicenda di Hubert, uscirà un libro ed avrà enorme successo.
E questa è la trama, la storia di uomo trasformato in topo e di come la sua famiglia affronta con coraggio la disavventura che gli è capitata in sorte.
Oh, poi in realtà mai fidarsi dei parenti!
I topi, si sa, portano malattie e così il figlio di Hubert, tanto religioso e timorato di Dio, vorrebbe cuocere il padre nel forno, la figlia è più compassionevole, pensa che sarebbe meglio avvelenarlo il cibo mentre lo zio suggerisce di venderlo al circo!
E’ una vita durissima per il poveraccio!
Lui riesce comunque a scampare alle amorevoli cure dei suoi famigliari, che si ricredono riguardo ai loro propositi e allora eccoli, tutti insieme a spasso per Dublino.
Conchita spinge fieramente una carrozzina, dentro alla quale è posata una gabbietta dove è sistemato il capofamiglia.
Ma dove mai se ne andranno, secondo voi? Ma al pub, ovviamente!
Ma Hubert se la svigna e sullo schermo vedrete una delle scene più belle del film, il topolino che fugge e tutti gli altri dietro, di corsa, per le strade di Dublino, sul ponte sulla Liffey, tra quelle case con i mattoni rossi tipici della capitale irlandese.
Che danni può fare un topo! A un certo punto Hubert manda fuori strada un camion, che trasporta botti di birra, e tutto il pesante carico cade a terra inondando le strade di quel prezioso nettare nel quale il topolino gioiosamente si tuffa per uscirne beato e ubriaco.
Il cinema prodotto al di là della Manica offre squarci di inusitata comicità, senza dubbio differente da quella proposta dai produttori hollywoodiani, inglesi ed irlandesi hanno un altro stile, il loro è un mondo piccolo, fatto di casette a schiera e di fumose periferie, se anche voi amate queste genere di cinema sapete bene di cosa stia parlando.
Umorismo, giustizia sociale e lotta della sopravvivenza si intrecciano in trame davvero divertenti e particolari.
Ricordate la banda di musicisti di Grazie Signora Thatcher? Le loro disavventure, che certo meritano una più approfondita menzione, vengono proposte con quella sagacia tutta britannica che non ha eguali nella storia del cinema.
Il tema di fondo, in quel caso, è la chiusura di una miniera, la crisi e la perdita del lavoro.
Eppure si ride, e tanto, e sono risate amare ed allo stesso tempo esilaranti.
Le stesse che vi strapperanno i disoccupati di Full Monty, improvvisatisi intrattenitori di adoranti platee femminili, oppure la candida protagonista del film L’erba di Grace, ricordate il suo sguardo pieno di arguzia e di acume?
E molti altri sono i film che richiamano queste tematiche, primi fra tutti quelli del regista Ken Loach, la cui opera è troppo importante e significativa per essere liquidata in poche righe.
A questo genere cinematografico appartiene anche Rat, un film che ha una sua morale e non voglio svelarvi troppo per non togliervi il piacere di scoprirla da voi.
Vi basti sapere che trasformarsi in un topo può essere davvero un’esperienza peculiare.
Se come Hubert, dovesse capitarvi di farla sul centrino, sappiate che vostra moglie non la prenderà affatto bene.
E per farvi il bagno vi sbatteranno in lavatrice, azionando il programma delicati e dopo per asciugarvi vi appenderanno per la coda al filo da stendere.
E se per disgrazia avrete la febbre, per farvi calare la temperatura vi schiafferanno nel frigorifero accanto alla pancetta.
Eh, è una vita difficile, con i suoi alti e bassi!
Ma ogni vita è degna di essere vissuta, anche se si è piccoli topolini bianchi, ogni vita ha il suo carico di bellezza e di stupore.
Da roditori si riesce a vedere nel buio.
E a prevedere la pioggia.
Ogni vita ha le sue meraviglie e i suoi entusiasmi.
Anche quella di Hubert Flynn, l’uomo che diventò un topo.

Miss Rossella

Miss Rossella è capricciosa.
Peggio: è insolente, volitiva, incontentabile e viziata.
Ed è anche bellissima: ha il vitino di vespa, la pelle candida e i lineamenti delicati.
Ha le fossette e quello sguardo spesso velato di malizia, quando si infervora i suoi occhi si iluminano di sfrontatezza e, se invece si sente sconfitta, si adombrano per l’inconsolabile delusione.
Miss Rossella, così la chiama la sua Mami.
Miss Rossella O’Hara, donna del Sud, caparbia, testarda e affascinante.
Con un cuore diviso tra due uomini differenti sotto ogni aspetto.
Il pallido, timido e tranquillo Ashley Wilkes e poi lui, Rhett Butler, il seduttore dal fascino canagliesco.
Ma chi ama Rossella davvero?
Rossella ama  Ashley oppure ama Rhett, l’unico che sembra avere abbastanza polso per poterla domare?
Fu un’indimenticabile Vivien Leigh a impersonare Rossella O’Hara, a quel ruolo erano candidate, tra le altre, Carole Lombard, Catherine Hepburn, Joan Crawford e Lana Turner.
Fu scelta Vivien e fu una sublime Rossella O’Hara, una donna che incarna molti pregi e difetti dell’universo femminile, ognuna di noi può riconoscersi in lei per un dettaglio, per un gesto, per una parola o un comportamento.
Questa è la forza di Rossella, la sua perfetta imperfezione.
Figlia, moglie, madre e amante.
Sempre sull’onda dell’emozione, Rossella getta sempre il cuore oltre all’ostacolo, al di là di ogni difficoltà.
E non si arrende Rossella, non cede mai.
Celebre e indimenticata quella scena del film nella quale la si vede correre verso la sua terra riarsa e piagata dalla guerra, mentre il sole che tramonta infuoca l’orizzonte, lei si getta al suolo e mangia le povere radici che ha la sorte di trovare.
E poi, ritta in piedi, con il pugno alzato verso il cielo scandisce queste parole:
Dovessi mentire, rubare, uccidere, lo giuro davanti a Dio, non soffrirò mai più la fame.
Questa è Rossella, la volontà che non si rassegna ad esssere vinta.
Ricordate quando, a corto di mezzi, si fece il vestito con le tende?
Oh, doveva sembrare una gran dama!
Ma non bastò ad ingannare Rhett Butler, affatto.
Sono simili Rhett e Rossella, sono maledettamente simili.
E lui lo sa, lo sa bene.

Ma di una cosa sono certo: che vi amo, Rossella. A dispetto vostro e mio, e a dispetto dello stupido mondo che ci crolla intorno, vi amo. Perché siamo uguali, gentaglia tutti e due, egoisti e scaltri, ma capaci di guardare le cose in faccia e chiamarle con il loro nome.

Rhett riesce sempre a comprendere le intenzioni di lei e sempre così sarà, in un eterno rincorrersi e sfuggirsi, in questo appassionato respingersi per poi riunirsi, nel sentimento forte e potente che alimenta la loro sete di vita.
Miss Rossella e l’amore, quanto è difficile conquistare l’amore per Rossella O’Hara?
E quanto è duro il confronto con la sua pietra di paragone, Melania, la donna amata da Ashley?
Dolce, generosa, pulita e ingenua, è quasi stucchevole Melania, la sua grandezza di cuore emerge da subito, Melania è buona, è scevra da qualunque gelosia e da ogni forma di competizione.
Non giudica, non parla a sproposito, sorride e comprende.
E ha questa bellezza angelicata, assolutamente priva di qualunque sensualità.
E comprende Rossella meglio di quanto lei capisca se stessa.
Due modi diversi di essere donna, distanti eppure complementari, in un certo qual modo.
Rossella, Ashley e Melania, chi è di troppo?
E quanti sospiri, per l’uomo che lei crede essere perfetto per lei e che mai potrà avere!
E che lei crede innamorato di lei, ma forse no.
E certo Ashley non ha i modi di Rhett!
Rhett è un mare in tempesta, Ashley un placido lago.
E quale sarebbe l’amore perfetto per Miss Rossella?
Sembra non saperlo neppure lei, un cuore diviso, che inizia a battere per uno solo in un preciso istante.
Accade alla morte di Melania, quando Rossella scopre che Ashley ha amato sempre, senza esitazioni, la sua eterna rivale.
Ed è la disillusione.
Ed è la coscienza del proprio sentire, che emerge spontanea, nelle parole di Rossella.

 E io che ho amato qualcosa che non esiste.
Strano, mi è indifferente, sento che non mi importa, non me ne importa niente.

 E di nuovo torna, quell’altra forma di amore, l’amore che scuote, che fa dannare ma che al contempo regala la vita e la gioia di vivere.
L’amore troppe volte respinto, non riconosciuto e sottovalutato, quel Rhett Butler al quale Rossella tra le lacrime dice:
Devo averti amata da sempre ma ero così sciocca da non saperlo.
L’amore che l’abbandona, con quella celebre frase:  Francamente, me ne infischio.
L’amore al quale lei non rinuncia, perchè Rossella è una donna che non si arrende, non si dà mai per vinta.
E l’amore, quell’amore perduto e svanito nel nulla ha ancora un destino da scrivere.
Altri baci, altri sospiri, rimpanti e fughe, abbracci e ritorni.
E quelle sue parole, famosissime e tante volte citate.
E troverò un modo per riconquistarlo. Dopotutto, domani è un altro giorno.
Rossella O’Hara, vera e reale,  nella sua perfetta imperfezione, è uno dei personaggi femminili a me più cari.
Capricciosa, incontentabile, ma con un carattere di acciaio.
Semplicemente unica, semplicemente Miss Rossella.

New York, New York!

E’ sempre stato il mio sogno, andare a New York.
E poi, per una serie di circostanze, non è mai accaduto.
Forse, a pensarci, questa affermazione non è corretta, sapete, sono stata a New York tante di quelle volte!
Provo a raccontarle, seguendo i ricordi, con la nostalgia che sempre mi contraddistingue.
Ero una bambina.
E c’erano due gemelli, li ricordate anche voi? Una bimbetta con i capelli biondissimi e il suo fratellino, si chiamavano Buffy e Jody, avevano uno zio ricchissimo e abitavano in un condominio di lusso, c’erano anche una sorella adolescente e un maggiordomo. Gli episodi di quel telefilm erano girati prevalentemente in interni, ma là fuori c’era New York, la Fifth Avenue, i grattacieli, le vetrine scintillanti dei negozi, c’era un mondo, da sognare e da scoprire.
E c’era Central Park.
E ditemi, nell’autunno del 1981, chi di voi era laggiù, seduto sull’erba ad ascoltare Simon & Garfunkel?
Central Park non è solo il polmone verde della città, è la metafora della vita.
Là, su quei viali, sotto gli alberi carichi di foglie, si vive, si soffre, ci si innamora.
E così lo ho attraversato, tante volte, insieme a Woody Allen, e certo star dietro ai suoi ragionamenti non è facile, soprattutto quando si mette a disquisire sulla religione e sui rapporti umani, ma lui è un tipo speciale, un newyorkese appunto, solo nella Grande Mela puoi incontrare persone come Woody.
E allora eccolo, insieme alla sua adorabile Annie Hall e poi ancora, ricorderete anche voi quella famosa scena di Manhattan, con la prospettiva del ponte di Brooklyn sullo sfondo, e le luci, le luci di New York.
New York è l’amore, tante maniere diverse di amare.
New York è romantica e struggente come Holly Golightly, la creatura sognante interpretata da Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany.
Elegante, diafana, bellissima, con il suo tubino nero e l’immancabile filo di perle,  lei abita nelle sue stesse fantasie, si siede alla finestra con la chitarra sotto braccio ed arpeggiando sulle corde intona Moon River, che splendida malinconia in quella canzone!
New York, New York è sensuale e vivace, è come il getto d’aria che sale dal tunnel della metropolitana e solleva la gonna bianca di Marilyn Monroe.
New York, New York è grintosa e ruggente come Liza Minnelli, è un pianoforte, è musica, è jazz.
New York è energica e giovane, come Meg Ryan, in Harry ti presento Sally, e qui l’amore è sfuggito, inseguito ma, come spesso accade, predestinato.
New York, New York è Brooklyn e la comunità italiana che lì abita.
New York è lo Studio 54, la sola discoteca nella quale rimpiango di non essere mai stata.
Ma ho dei ricordi, dai contorni ben definiti, che davvero non si cancelleranno mai dalla mia mente.
E per me, per l’epoca nella quale sono cresciuta e per la musica che ha accompagnato i miei anni, la notte di New York è segnata dai passi di Tony Manero, sapete quante volte sono stata insieme a lui su quella pista da ballo?
E quanto mi affascinava il suo modo di essere così sofferto e contraddittorio, era un duro dal cuore tenero Tony Manero, frequentava dei cattivi ragazzi ma aveva perso la testa Stephanie, la donna che gli salverà la vita, a passo di danza.
New York, New York è nei libri, nell’incapacità di stabilire relazioni durature e che resistano all’usura del tempo, perché così è la vita, tutto brucia, veloce e implacabile.
E questo è il tema che ricorre nei romanzi di uno degli autori che ho più amato,  Jay Mc Inerney.
I suoi romanzi li ho letti tutti e sono forse legati ad un epoca, agli anni nei quali si ambientano.
Il primo che lessi mi rimase nel cuore più di ogni altro.
Bright lights, big city, questo il suo titolo.
Due sostantivi e due aggettivi, asciutto, rapido, essenziale.
Così è New York, così è quel romanzo.
Il titolo, nella nostra lingua, lo trovo assai più banale, penso che abbia quasi perso parte del suo simbolismo, è divenuto Le mille luci di New York.
Bright lights, big city.
Dal romanzo fu tratto un film, il protagonista ebbe il volto di Michael J. Fox, questa è la New York degli Anni Ottanta, della disillusione, del disincanto, dell’ambizione, della caduta e della rinascita.
E ancora, sempre di Jay McInerney, non posso dimenticare Alison Poole, la tormentata protagonista di Story of my life, edito in Italia da Bompiani con il titolo  Tanto per cambiare.
Una modella, un’eroina tragica, sofferta e affascinante come poche altre, ho letto questo libro un’infinità di volte e, ora che ne scrivo, mi torna il desiderio di riprenderlo tra le mani.
Jay Mc Inerney e  il suo Brightness falls, un romanzo che narra la storia di una coppia che si sgretola.
E da quelle pagine ho tratto una frase che da sempre riporto sulla mia Moleskine, questa: gli uomini parlano con le donne per poterci andare a letto, le donne vanno a letto con gli uomini per poterci parlare.
Questa frase, per me, riassume in sé tutti gli inganni della nostra epoca, la difficoltà di stabilire rapporti concreti e duraturi, l’assenza, a volte, di comunicazione.
New York, quante cose sto omettendo di narrare.
New York, e ancora una volta lui, Jay Mc Inerney e il suo romanzo Good Life, che risale al 2006.
Si narra, in quelle pagine, la vita e la risurrezione  di una città, dopo quel dannato martedì, quel terribile undici settembre.
Trauma, dolore, sofferenza, un abisso che ti scava dentro.
E le immagini, quelle immagini, hanno avuto un impatto forte e crudele su di me, mi hanno tormentato e ancora mi perseguitano adesso, quando la mia mente torna a quei grattacieli che si sgretolano, a quelle persone che cadono giù, a quella fiumana di gente che fugge, disperata e terrorizzata.
Nel 2011 c’è stato il decennale di questo tragico evento, la mia amica Valentina che mi conosce bene e sa quanto io abbia letto, visto e cercato di conoscere sugli eventi di quel giorno, mi ha chiesto come mai non avessi scritto nulla in merito.
Perchè mi fanno troppo male quelle vite perdute, perché ogni tanto mi viene in mente una ragazza di origini greche, della quale avevo letto la storia, aveva un fidanzato, una carriera, abitava in periferia e al mattino presto andava in palestra, perché ho impressi nella mente, sorrisi, volti e speranze che non ci sono più, centinaia di storie, di vite diverse, spezzate nel medesimo istante.
Perché ripenso a quei giorni, a quei fotogrammi tante volte rivisti.
Perché spesso mi domando cosa ne sia stato di quel giovane papà, chissà se lo ricordate anche voi.
Lo si vede correre, nella folla.
Stretto a sé, in un marsupio, tiene un bambino di pochi mesi, il piccino ha la mascherina sulla bocca, suo papà lo abbraccia, cerca di proteggerlo.
Quel bambino oggi dovrebbe avere circa undici anni, vorrei vedere il suo viso, vorrei vederlo camminare per le strade di New York, vicino al suo papà.
La più tragica scenografia mai vista nella Grande Mela l’ha messa in scena la vita reale, che atroce crudeltà!
New York, quanto è grande New York?
Quante suggestioni, quante illusioni, quanto futuro proviene da quella città?
L’arte che nasce a New York è oltre la nostra immaginazione, pensate ad Andy Warhol e alle sue latte di zuppa Campbells, a Roy Lichtenstein e alle sue donne da fumetto.
Quanti mondi è New York?
Quanti vite, quanti amori?
Un maratoneta, i coniugi Kramer che divorziano, Demi Moore rimasta sola, senza il suo amore e lui, ormai fantasma, che per farsi riconoscere anziché dirle ti amo le ripete idem, come faceva in vita.
E quante volte avete sorseggiato un Cosmopolitan insieme a quelle quattro splendide ragazze, Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda?
E lei, Carrie, quante disavventure, poverina!
Un tizio l’ha persino piantata con un post it, a me non è mai capitato, ma mai dire mai.
E quel Mr Big, quanto l’ha fatta dannare in quel continuo prendersi e lasciarsi, fuggire per poi ritrovarsi, con la forza di una passione che non si riesce a dominare, a vincere.
E quelle notti insonni a pensare, a scrivere sul Mac, davanti alla finestre,  quei tacchi altissimi che Carrie indossa, i molti taxi sui quali siamo salite insieme.
Tutte questo è avvenuto, in quelle strade, le strade di New York.
E davvero non mi pare vero di non esserci mai stata.

Io e Francesco

Quando non avevo un blog, pensavo: appena lo avrò, parlerò di lui.
Sono passati più di tre mesi e ancora, su di lui, non ho scritto una parola.
Eppure ci penso, alcune mattine provo a concentrarmi, raccolgo le idee, i ricordi, poi mi freno.
E allora, anche se tuttora mi commuovo a parlare di cosa sia stato e di cosa sia lui per me, ci provo, così come i pensieri fluiscono alla mente e come li sento dentro al cuore.
Ero giovane.
Lui era famoso, piaceva a tutti.
Non ne ho perso uno, dei suoi film.
Li ho visti in un cinema all’aperto, al mare.
Andavo con un amico, Alberto, che come me lo adorava.
Ci mettevamo in prima fila, con i pop corn, la Coca Cola, il pacchetto di Camel, una confezione di Bigbabol e la serata iniziava così nel migliore dei modi.
E sullo schermo c’era lui, Francesco.
C’era la campagna toscana, piana, rasserenante, con quei colori da cartolina.
Il tavolo da biliardo, le stecche.
Giuliana De Sio, espressiva e fatale, Ornella Muti, coi capelli lunghi fino alla vita, Carole Bouquet, sensuale e bellissima.
I suoi film li ho visti tutti.
E i più giovani di voi  forse non sanno chi era e chi è per noi, per molti di noi, Francesco Nuti.
Era il fratello maggiore, quello con la fossetta sul mento e la battuta pronta.
Era quello che si circondava sempre di belle donne, una più seducente dell’altra.
Era quello che, insieme a Benigni, ha portato la parlata toscana nelle nostre case.
Era quello che ci ha portato laggiù, a Casablanca.
Era quello che ha battuto lo Scuro con un’ottavina reale, fu un colpo da maestro, quello.
Era quello che ci ha insegnato che la mortadella è comunista, il salame socialista, il prosciutto democristiano.
Era quello che, in Donne con le gonne, matto di gelosia per Carole Bouquet, l’ha presa e l’ha rinchiusa in un casale, con una catena alla caviglia.
Un maschilista, voleva la sua donna tutta per sé.
Era quello che aveva sempre questi amori difficili, combattuti, appassionati ma poi, alla fine, riusciva sempre a sfangarla.
Era quello che diceva: lei m’ha lasciato, ma l’ho deciso io, perchè se lei mi avesse detto: ti lascio!
Come? No, non mi lasci, questo lo decido io!
Infatti io ho deciso che lei mi lasciasse, m’ha lasciato però l’ho deciso io, perchè a un certo punto l’omo si deve far sentì, perché l’ultima decisione a chi spetta? Spetta all’omo!
Era quello che, con la chitarra sotto il braccio, cantava tu hai le puppe a pera.
Era quello che, con Ornella Muti, ha girato una scena qui a Genova, a Spianata Castelletto, un posto che amo molto e ogni volta che passo penso a lui, a Francesco.
Era quello che diceva: Madonna che silenzio che c’è stasera! Con le consonanti aspirate, da buon toscano.
Francesco era ed è tutto questo.
E vorrei dirgli che noi, quelli del cinema all’aperto, ci siamo ancora tutti.
Noi, Francesco, siamo quelli che telefonavano dalle cabine, quelli che in motorino ci andavano senza casco, quelli che in discoteca ballavano i Frankie goes to Hollywood.
Noi, Francesco, siamo quelli che hanno visto Tutta Colpa del Paradiso, Donne col le gonne, Caruso Pascoski di Padre Polacco, Willie Signori e vengo da lontano.
Noi li abbbiamo visti, e abbiamo visto tutti gli altri tuoi film, là, nel cinema all’aperto.
E io oggi ho deciso di scrivere di te, di noi.
E cercando i tuoi video ho scoperto che sta uscendo un tuo libro e io certo lo comprerò, ma ora sto pensando che non sia un caso, se proprio in queste ore, sono riuscita a scrivere di te.
E’ perchè tra te e noi, quelli che venivano lì, in prima fila, quelli che si godevano i tuoi film fumandosi una Camel, stravaccati nel cinema all’aperto, quelli che tu  facevi ridere, a volte fino alle lacrime, tra te e noi, Francesco, c’è un filo che non si è mai spezzato, da allora  fino ad oggi.
Ed è bello dirti bentornato, anche se dai nostri cuori non te ne sei mai andato.
Sei sempre stato lì.
Tu ci hai fatto ridere, emozionare ed innamorare.
Sì innamorare, con questa tua canzone che per me, per molti di noi, è una delle più dolci e romantiche mai scritte.
Hai ancora la stecca in mano, Francesco.
Ottavina reale, il tuo colpo, un colpo da maestro.