Il tempo della speranza

Dipingeva in una sorta di lucida ebrezza.
I colori avevano ripreso a cantare dentro di lei, ma non in modo dissonante come accadeva con l’astrazione, bensì in melodie perfettamente armoniche.

Eccola Florentine, da tutti detta Flori, la più piccola delle ragazze Thalheim, una giovane donna in cerca del suo destino e protagonista di Il tempo della speranza, terzo ed ultimo volume della trilogia scritta da Brigitte Riebe dedicata alle vicende di una famiglia tedesca.
La trilogia, pubblicata da Fazi Editore, attraversa diversi anni della storia del paese, offrendo uno spaccato su una quotidianità a volte luminosa e a volte difficile da conquistare.
Le vicende della sorella maggiore Rike ambientate nel primo dopoguerra sono narrate nel primo volume Una vita da ricostruire del quale ho scritto qui, alla brillante Silvie e alla sua giovinezza trascorsa negli ‘50 è dedicato invece il secondo volume Giorni felici da me recensito qui e infine sulla giovane Flori la Riebe ha scritto questo conclusivo volume ambientato negli anni ‘60.
Flori è una ragazza inquieta e a suo modo ribelle, segue il suo istinto e il suo temperamento artistico: al principio del romanzo la troviamo di ritorno da Parigi con tante idee e progetti per la testa e con la certezza di non desiderare un impiego nei grandi magazzini di famiglia in questa Berlino che è scenario del romanzo.
No, il mondo della moda non fa per lei, Flori ama l’arte e la pittura, cerca così la sua indipendenza, la sua libertà e la sua identità, trovando ostacoli a volte ardui da superare.

Ricominciarono le lunghe notti davanti al cavalletto, ma stavolta non era mossa dall’euforia che aveva provato all’inizio dell’innamoramento, ma dalla pura disperazione.
Dipingeva per sopravvivere, questo era ciò che sentiva Flori.

La vita, per Flori, è anche passione e le sue relazioni sono tempestose e complicate, crescendo tuttavia scoprirà che a volte il sentimento autentico si trova là dove non si sarebbe mai immaginato.
Si compiono i destini e le vite, il mondo cambia.
E in questa Germania degli anni ‘60 compaiono anche alcune figure indimenticabili come la leggendaria Marlene Dietrich e i Beatles in concerto ad Amburgo.
E in questa tormentata Berlino si compie un evento destinato a stravolgere i destini dei tedeschi: la costruzione del muro.
La Riebe, con riconosciuto talento, sa mescolare contenuti di diverso spessore con abile maestria e propone un intreccio gradevole con i giusti accenti di leggerezza mantenendo l’attenzione sulle note vicende berlinesi con misurati approfondimenti che restituiscono un romanzo perfettamente equilibrato e armonioso.
E così tra le pagine di questo libro trovano spazio le emozioni delle persone divise dal muro e pagina dopo pagina Flori acquista consapevolezza e nuovi talenti espressivi: le sue foto del muro di Berlino saranno un successo, la fotografia diverrà per Flori il mezzo per trovare anche un nuovo legame con l’impresa di famiglia.
E qui, in questa Berlino tormentata e divisa, arriva un giorno il Presidente Kennedy che davanti a una folla trepidante pronuncerà il suo celebre discorso e ad ascoltarlo c’è anche Flori con la sua macchina fotografica e accanto al suo amore.

Berlino, la città in prima linea, la polveriera, ne aveva passate tante e si era sempre risollevata. Entrambi si sentivano a casa in quella folle metropoli e l’amavano follemente. Proprio come si amavano loro.

Questo è Il tempo della speranza.
La voglia di ricominciare, di guardare al futuro con rinnovato ottimismo, progettando il domani con la fiducia di realizzare i propri sogni.
Avvincente, movimentato, questo volume chiude brillantemente la trilogia della Riebe e forse, per la caratteristiche della protagonista, è il romanzo che ho preferito tra i tre.
Ho seguito volentieri le vicende delle ragazze Thalheim, a volte i personaggi letterari sanno essere una splendida compagnia.
E ho guardato con indulgenza alle debolezze di Flori, a certe sue incertezze e alle sue penombre sulle quali scendono come un raggio di sole le parole di colui che lei hai scelto come compagno della sua vita.

Tutte le cose belle ritornano prima o poi, e a volte non è che l’inizio di una nuova scoperta.

Giorni felici

“L’immagine che vide riflessa le piacque: occhi blu lucenti, naso diritto, bocca carnosa. La sua pelle era rosea e chiara, ma adesso quando rideva apparivano delle antipatiche rughette che fino a due o tre anni prima non c’erano.
L’anno successivo avrebbe compiuto trent’anni.”.

È la primavera del 1952 a Berlino e questa creatura incantevole è Silvie, la seconda delle ragazze Thalheim: lei è è la protagonista di Giorni Felici, secondo volume della trilogia scritta da Brigitte Riebe dedicata alla storia di una benestante famiglia tedesca, qui trovate la mia recensione di Una vita da ricostruire, primo libro della saga pubblicata da Fazi Editore.
In questi luminosi anni ‘50 la Germania rinasce e con essa la sua economia, i grandi magazzini Thalheim sul Kurfürstendamm berlinese fanno affari d’oro con le loro proposte di moda.
Silvie è una giovane inquieta, ha una tormentata storia d’amore, è una ragazza brillante e di talento, ama sfrecciare per la sua Berlino a bordo della sua Vespa e ha alcune doti mirabili, non le mancano certo intuito e lungimiranza.

“… sin dalla più tenera età riusciva a immaginare praticamente tutto.
Quello era il suo modo di sentire.
Il suo modo di pensare.
E persino il suo modo di agire.”

Con stile garbato ed eleganza così si dipana questa ulteriore vicenda della famiglia Thalheim mantenendo lo sguardo anche sugli eventi della Berlino post bellica e sugli inevitabili legami tra gli abitanti del settore ovest e quelli del settore est.
Il romanzo, tuttavia, ha volutamente gradevoli accenti di leggerezza e pertanto non si dilunga in modo particolare su vicende complesse e drammatiche.
La vita scorre, non senza difficoltà, la Riebe assegna ad ognuno dei suoi protagonisti la propria parte di gioie e di dolori, proprio come accade nella realtà.
Silvie è vivace, ha un’intelligenza curiosa, conduce con successo una trasmissione radiofonica e riuscirà persino ad intervistare il celebre scrittore Heinrich Böll che fa così la sua comparsa in alcune pagine del libro.
Silvie inoltre si occupa anche dell’impresa di famiglia e ha un fratello gemello che è fonte di grandi preoccupazioni.
E per gran parte del romanzo la giovane si ripete certe parole che gettano un ombra di incertezza sul suo futuro:

“Senza un uomo. Senza una casa. Senza un figlio.”

Pagina dopo pagina l’autrice accompagna la sua protagonista e i suoi lettori verso la realizzazione e verso la tanto agognata felicità, non è un percorso semplice e piano, è anzi ricco di ostacoli, di lacrime e di improvvisi colpi di scena.
La trama, ricca e mai monotona, si presterebbe sicuramente a divenire la sceneggiatura di una serie televisiva, le vicende delle sorelle del Ku’damm avvincono e coinvolgono con la giusta gradevolezza, questo romanzo come il precedente è una lettura piacevole e coinvolgente e tra queste pagine già si preannunciano le vicende del terzo volume che conclude la serie.
C’è un momento, nella vita di ognuno, in cui si cercano semplicemente la quiete e la serenità, un traguardo ambizioso e non sempre facile da raggiungere e Silvie Thalheim, ve lo assicuro, lo sa molto bene.

“Era forse troppo pretendere che per una volta le cose andassero bene e basta, per tutta la famiglia e senza eccezioni?
Giorni felici – pensò – è di questo che abbiamo bisogno adesso.”

Una vita da ricostruire

Questa è la storia di una famiglia narrata attraverso gli sguardi di tre sorelle: Rike, Silvie e Florentine Thalheim sono le protagoniste del romanzo Una vita da ricostruire di Brigitte Riebe pubblicato da Fazi Editore e primo volume di una trilogia.
La vicenda si snoda a Berlino nell’immediato dopoguerra e la vita, per chiunque, è faticosa e complicata: la città è in cenere, il futuro è tutto da inventare.
Anche alle ragazze Thalheim il destino ha riservato una notevole cifra di difficoltà da fronteggiare: il negozio di mode della famiglia è stato travolto e distrutto dalla furia della guerra ma le ragazze sono intraprendenti, testarde e tenaci, riprenderanno le redini delle loro esistenze animate da un autentico desiderio di riscatto.
Rike, la maggiore delle sorelle, è la principale eroina di questo primo volume della trilogia ed è anche la prima a rimboccarsi le maniche, dal suo passato ha conservato gelosamente le forbici da sarta della mamma e tanti cartamodelli.

Così, grazie alla forza di volontà di queste sorelle e con la collaborazione della ritrovata amica Miriam l’attività di sartoria, piano piano, riprende vita e nell’autunno del ‘45 si terrà persino la prima sfilata berlinese tra le macerie.
La Riebe offre al lettore una storia sincera e credibile non priva di improvvisi colpi scena e quando si pensa di aver intuito lo svolgersi di una vicenda si finisce invece per scoprire nuovi inattesi risvolti.
Questo libro è una lettura piacevole che si ambienta in un periodo storico sul quale aleggia ancora la cupa e sinistra crudeltà della guerra e nel quale la città di Berlino subisce gli inesorabili cambiamenti di quegli anni.
La quotidianità delle ragazze Thalheim si intreccia così alle tematiche storiche che fanno da sfondo alla vicenda del romanzo: amori, speranze, segreti mai svelati si snodano pagina dopo pagina in una lettura gradevole e dotata a mio parere della giusta cifra di leggerezza.
La scrittura della Riebe è garbata e priva di ridondanze narrative, l’autrice poi si avvale spesso dei dialoghi che rendono la narrazione svelta, immediata e particolarmente efficace.
Il romanzo giunge ad una sua naturale conclusione che è anche il preludio delle vicende dei due successivi volumi ed io certamente li leggerò, dopo la lettura di questo primo volume mi sono affezionata alle tre ragazze Thalheim: oltre al racconto delle loro esistenze tra queste pagine si coglie la storia e il destino di Berlino, mentre la vita fluisce scandita dai battiti di certi cuori.

“Purtroppo non possiamo fermare il tempo, per quanto vorremmo: dobbiamo seguire il suo passo, a volte ci fa danzare, altre volte ci lascia cadere.”

Una ragazzina

Lei è una ragazzina di un altro tempo e il destino ci ha fatto incontrare: giorni fa ho infatti acquistato una bella fotografia in formato cabinet ed è il ritratto di lei.
Lei venne così immortalata dal fotografo Weber a Winnenden, ridente località della Germania e così chiaramente ho immaginato che lei fosse tedesca.
La ragazzina di quell’altro tempo ha i capelli lunghissimi, paiono anche un po’ mossi, chissà con quanta pazienza glieli spazzolavano ogni mattina.
Lei ha il visetto dolce, i lineamenti regolari, il nasino un po’ all’insù, porta sull’abito chiaro una bella collana.

E tiene tra le mani quella che pare una rivista illustrata, la sorregge con delicatezza e si scorge anche il vezzoso bordo in pizzo della sua candida gonna.

E sorride e forse gioca con la fantasia e l’immaginazione, osserva e pensa.
Seduta su una sedia, con i lunghi capelli che cadono sulle sue spalle, con la sua grazia di fanciulla così svelata dal talento di un bravo fotografo.

Una giornata d’estate ad Amburgo

Una giornata d’agosto in un’altra città.
Io amo le stagioni fresche e per i miei  viaggi ho scelto spesso città del Nord Europa, quell’anno andai ad Amburgo e a Berlino.
Da sola, sono sempre stata autonoma e indipendente.
Amburgo è la città degli ombrelli e in quei giorni d’estate ho quasi sempre girato con la giacca a vento e le scarpe da pioggia, ad Amburgo a volte il cielo è grigio ma non per questo meno ammaliante.
Amburgo è città di porto, Amburgo è ricca, elegante ed austera, Amburgo è vivace e viva.
Amburgo è affascinante, l’ho scelta su consiglio di mia mamma che c’era stata da giovane.
E allora oggi è quel giorno d’agosto.
Esco dall’albergo, lì accanto c’è un ufficio postale, mi stupisco che ci sia una buca delle lettere destinata alla posta che parte di domenica, l’efficienza teutonica mi ha sempre meravigliato.
Ho la cartina, la macchina fotografica, la guida, l’ombrellino pieghevole, lo zainetto sulle spalle.
Ho tutto il tempo per girare, su e giù.
E lungo i canali, guardando le case, osservando le finestre e immaginando le vite inaccessibili degli altri.
In qualche stanza di Amburgo un amore finisce e un altro inizia.
Ich liebe dich. Oder nicht.
Sospirando, forse.

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Ad Amburgo ci sono tante biciclette e la gente pedala lungo le rive del lago Alster, ci sono vecchiette con improbabili sandali bianchi e bimbetti biondi dalla carnagione nivea.
Cammino, io amo camminare.

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Entro in un negozio di porcellane, in realtà è tutto molto british, l’arredamento è di legno scuro e caldo, è un posto molto accogliente.
E poi mi ritrovo in un grande magazzino, sono articoli piuttosto a buon mercato, c’è un’ampia sala dedicata alle stoffe e al ricamo con scampoli di ogni genere, kit per il cucito e scatolette piene di bottoni.
Guardo, tocco, tornerò di nuovo, più di una volta.
E poi ancora, una libreria dove potrei perdermi, credetemi.
All’estero cerco sempre il settore dedicato ai viaggi e all’Italia, c’è sempre qualche volume fotografico di pregio, se tratta della Liguria l’immagine di copertina è quasi sempre Portofino.
E poi i libri di ricette, uno lo compro, si intitola Tante Sophies Kartoffelküche, decine di maniere diverse per cucinare le patate, le ricette di Zia Sophie.
Certo, che altro vuoi comprare in Germania? Un ricettario, sì.
Cammino, piove.

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E nella città degli ombrelli mi concedo una pausa in un bel caffé dove servono sontuose fette di torta, sono altissime e ricche di creme, certe bontà non si dimenticano.
Al tavolo accanto al mio c’è una bella famiglia, lui è certamente tedesco, lei dev’essere caraibica, le loro figlie sono un prodigio di bellezza, pare che abbiano preso il meglio da entrambi i genitori.
Parlano piano, sussurrano, sono tranquilli e complici, la bimba più piccina porta i capelli raccolti in un codino, lei sorride e sul suo viso compaiono adorabili fossette.
Penso che la loro sia la famiglia perfetta, quella che chiunque vorrebbe avere.
In un caffé d’Amburgo, mentre fuori piove.

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E poi ancora, una città intera mi attende.
E percorro una strada, un viale alberato con case lussuose ed eleganti.
E giardini e siepi e cancelli, sotto al cielo lattiginoso di Amburgo.
E’ Magdalenenstraße, un edificio che mi colpisce in maniera particolare, non so per quale ragione ho l’impressione di averlo già visto, mi sembra  di conoscere questo luogo, è una sensazione davvero strana e resterà uno di quei misteri che la memoria non è riuscita a svelare.

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Amburgo è ampia, linda, ordinata.
Amburgo è a misura d’uomo, vorrei vederla con il ghiaccio e con la neve, credo che sia la sua dimensione ideale.
Amburgo è la piazza del Municipio con i fiori alla ringhiera, i cigni che si muovono lenti sull’acqua, i suonatori di strada, contrabbasso e violino, è l’antico e il moderno e le sue case caratteristiche.

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Ad Amburgo avevo la macchina fotografica con il rullino, nella maggior parte delle foto ci sono io.
E per questo post ho fotografato le mie fotografie con ladigitale così le immagini non sono perfette, ma sono i ricordi del mio viaggio e devono stare qui, tra le mie parole.
Amburgo è azzurro pallido, carta da zucchero, color metallo e argento, oro e panna.

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Amburgo è il porto, Amburgo è un pomeriggio a Blankenese, un tempo piccolo borgo di pescatori, oggi è un incantevole luogo di vacanza tutto scale e case arrampicate sulla collina, magari ne scriverò, quella è stata una gita in maniche corte e sotto il sole lucente.
Questo giorno d’agosto, nell’aria fresca del Nord Europa, lo concludo con una cena in un ristorante siriano che si trova nell’Alsterarkaden, sotto i portici, nei pressi del Rathausmarkt, la piazza del Municipio.
E sapete cosa mi colpisce di questo locale? I tavolini rotondi, coperti da una tovaglia candida, al centro ci sono petali di rosa e lenticchie, una maniera insolita di decorare una tavola.
E poi servono sapori mediterranei molto graditi al mio palato,  è una cena che ha profumo di spezie e si conclude con un dessert con mandorle croccanti.
Una giornata ad Amburgo, senza suggerire itinerari, musei o luoghi da scoprire, io scrivo solo di ciò che è rimasto nella mia mente.
Ogni viaggio è una conquista, una piccola parte di mondo che entra nel tuo piccolo mondo e resta con te.
E questo è il ricordo di un luogo dove sono stata diversi anni fa, nel 2001.
Eppure è tutto rimasto nella mia memoria: la bambina con le fossette, la pioggia sottile, le rose sul tavolo, una casa che credo di aver già veduto, la cassetta delle lettere.
In una giornata d’agosto in un’altra città.

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Peripezie in terra di Baviera

Si era agli inizi degli anni Novanta quando una studentessa di lingue, per districarsi nei meandri della lingua teutonica, decise di partire alla volta della Germania.
Alas, come direbbe il poeta!
Prestare la propria opera come au pair in terra tedesca è stato tutto tranne che semplice, ve lo posso assicurare.
Scenario di questa indimenticabile esperienza un ridente quartiere borghese di Monaco, città ricca di arte, culla del benessere e della cultura.
Ah poi, sulla carta, la famiglia presso la quale avrei alloggiato pareva davvero perfetta, mica vi stupirete, no!
Padre dirigente d’azienda, madre medico con specializzazione in psichiatria, due figli, un maschietto sui tre anni e una bimbetta di otto mesi.
Non per parlar per frasi fatte ma mi duole confermare che sì, è vero: l’apparenza inganna, ecco.
Soprattutto per quanto riguarda lei, mammina tutta sorrisi, e lui, la sua bionda progenie, un piccolo unno che non arrivava al metro ma era in grado di far danni quanto un ciclone tropicale.
Costui era assolutamente refrattario alla minima regola del viver civile, essendo stato allevato nella più totale ed assoluta libertà.
Per praticità d’ora in avanti lo chiamerò Attila, nome che gli si addice in ogni sua accezione, senza alcun dubbio.
Ai tempi, dicevo, Attila era un biondo virgulto treenne, se è scampato alle cure della sua genitrice, adesso dovrebbe avere oltre vent’anni.
Sospiro.
Se ripenso a lui, lo vedo correre nudo giù dalle scale, con le forbici da giardinaggio spalancate verso la faccia e ho un chiaro ricordo di me che mi precipito verso di lui per togliergliele di mano, si sa, l’italico istinto materno tende alla tutela della specie. E con uguale chiarezza ho vivida l’immagine dell’incauta madre che accorse in tutta fretta a fermarmi redarguendomi aspramente in quanto, a suo dire, i bambini devo poter fare le loro esperienze, anche sbagliando.
E così ad Attila era consentito arrampicarsi sulla casetta in giardino, ovviamente sempre brandendo fiero le suddette forbici, mentre non gli era permesso entrare in casa per andare in bagno quando la madre visitava i suoi pazienti, circostanza che non lo rendeva affatto felice.
Finiva sempre che me lo ritrovavo in giardino in preda ad isterismi da tregenda, che si manifestavano nel peggiore dei modi: il tenero bimbetto prendeva a rotolarsi per terra urlando a squarciagola nel suo flautato idioma ed era capace ad andare avanti fino allo sfinimento dei miei timpani e del mio sistema nervoso.
Avete una vaga idea di cosa sia un bambino tedesco che fa i capricci? Mica è come uno di Verona, di Reggio Emilia o di Roma, eh no, è tutt’altra storia! Riuscite ad immaginare un vichingo in miniatura che si dibatte sull’erba ad ugola spiegata dimenando tutti e quattro gli arti come se fosse posseduto?
Ecco, dev’essere stato allora che sono stata colpita dalla notissima Sindrome di Erode, sulla quale potrei ampiamente dissertare con una certa cognizione di causa.
Oh, non fraintedetemi, a me piacciono i bambini, e tanto! Ma quando sono come costui, mi garbano assai di più se tra me e loro c’è una debita distanza, diciamo qualche chilometro tanto per iniziare, ma anche l’intera cortina della Alpi, ecco, questo è un conforto sufficiente per tutelare la mia persona dagli attacchi acuti della citata sindrome.
E meno male che la sorellina di Attila era praticamente finta!
Lei, devo dire, non mi ha mai causato alcun disagio, anzi, era una bimbetta allegra e vivace, per nulla lagnosa o fastidiosa.
A suo riguardo, purtroppo, rammento un particolare al quale ripenso ancora con un certo ribrezzo.
Sapete, a quell’età i piccini portano i pannolini.
Ma secondo voi, una brava madre teutonica dove butta i pannolini con il loro maleodorante contenuto? Ma che domande, in un enorme  bidone che tiene nella camera della piccola e che verrà svuotato solamente quando sarà pieno.
Orrore e raccapriccio. Devo dire che il bidone, in quanto a cattivi odori, se la giocava con l’enorme cassonetto situato di fronte a casa, nel quale veniva gettata ogni sorta di rifiuto organico, dai gusci delle uova agli avanzi di verdura.
Benedetta madre, medico, dottoressa e qualunque altra cosa fosse.
Che poi, non ho mai ben compreso una cosa.
Appena varco la frontiera, c’è qualcuno che complotta per farmi morire di inedia.
In questo caso, anche di sete, aggiungerei.
La cena della borghese e benestante famiglia consisteva spesso in pane nero ed un pezzo di groviera, desolatamente solitario e malinconico, per non dire del fatto che la gentile padrona di casa era solita tenersi la bottiglia dell’acqua vicino al piatto, per cui, se qualcuno dei commensali come la sottoscritta aveva l’ambizione di bere, bisognava per forza chiedere.
No, prima che me lo chiediate vi tranquillizzo, non si usava scudisciare la schiena degli ospiti ululando frasi come “Ricordati che devi morire” oppure “Siamo nati per soffrire”, no questo no!
Però quando si usciva a fare la spesa, alla voce “compriamo la frutta” corrispondeva l’acquisto di quattro albicocche quattro, per un nucleo famigliare di tre adulti e due bambini.
Fame, languore, datemi una mamma italiana che butti un etto di maccheroni a testa, vi prego, è una questione di sopravvivenza!
E fu così che Miss Fletcher si offrì di occuparsi della cucina, non tanto per spirito di sacrificio ma piuttosto per un sano istinto di conservazione.
Una sera, per i signori e per una loro coppia di amici, preparai una favolosa carbonara, e ricordo ancora le insistenze della dottoressa, che ripeteva che no, non serviva che comprassi il parmigiano.
Usa il formaggio olandese, è uguale! Nein, risposi convinta! Uno scempio del genere non l’avrei compiuto neanche in cambio di molti marchi sonanti!
E ancor più arduo fu il tentativo di cucinare il risotto, ricordo di aver cercato lo zafferano come l’Araba Fenice, per poi trovarlo in vendita in un’erboristeria come se fosse chissà quale ricercato ingrediente.
Benedetti tedeschi, per vostra informazione sappiate che i concittadini di Frau Merkel chiamano gli italiani Spaghettifresser, ovvero divoratori di spaghetti, appellativo che include, direi, anche un certo malcelato disprezzo.
Mah, forse sono stata sfortunata io! Oltretutto i tedeschi sono persone che sanno godersi la vita e  in Germania si mangia benissimo, specialmente in Baviera, ovunque è un tripudio di salsicce, di wurstel e di dolci davvero squisiti.
Tranne che in quella dannata villetta a due piani, purtroppo.
Ed io che certo non sono mai stata  una campionessa di economia domestica, un giorno, presa da furore casalingo, mi misi a pulire il frigorifero. Avevo notato banane nere e languenti nel cassetto, il solito groviera avvizzito e pasta di wurstel spalmata qua e là sulle pareti.
Ah, devo dire che il mio lavoro venne tanto apprezzato, sapete! Tanto che due giorni dopo la signora cinguettante e festosa mi disse con entusiasmo: potresti un po’ lavare il frigo!
Eh, credo non l’avesse mai fatto in vita sua, diciamocelo.
Lasciai Monaco di Baviera ben prima del previsto, con la promessa di ritornarci, prima o poi.
E’ una gran bella città, strade, piazze, musei, c’è molto da vedere e da visitare.
E poi nei dintorni ci sono i castelli di Re Ludwig e paesini incantati che sembrano usciti da una fiaba dei fratelli Grimm, tornerò a parlarvene, dedicando a questi luoghi lo spazio che meritano.
Di quell’amena famiglia teutonica non ne ho più saputo nulla né tanto meno ho notizie del piccolo Attila.
Spero solo che, crescendo, abbia imparato da sé che non è sano correre con le forbici in mano.