Élisabeth Vigée-Le Brun, una ritrattista alla Corte di Francia

La luce fioca di una lampada e la mano di una bimba che disegna.
E’ un ritratto maschile, la bimba ha appena otto anni ed è figlia dell’artista Louis Vigée, il padre la osserva disegnare, riconosce il suo talento ed esclama: Sarai pittrice, bambina mia, o nessun altro mai lo sarà.
E questo è uno dei primi ricordi che Élisabeth Vigée-Le Brun consegna ai posteri, le parole sono tratte da  un libro dal titolo Memorie di una ritrattista.
Una pittrice alla Corte di Francia, artista prediletta dalla Regina Maria Antonietta da lei ritratta in molte celebri opere che sono esposte al Louvre, al Castello di Versailles e in molti altri celebri musei e che potete ammirare qui.
E oltre al suo tratto gentile a noi sono giunti i suoi ricordi, memoria preziosa di anni concitati e furiosi, gli anni della Rivoluzione Francese.
E Madame Élisabeth narra di un primo fortuito  incontro con la sua Regina, nello splendido scenario del Castello di Marly, Maria Antonietta ha con sé un seguito di dame tutte vestite di bianco e con loro passeggia in quel parco meraviglioso, tra cascate e giardini, un castello del quale non rimane più nulla.
E’ appena ventenne quando va in sposa a Jean-Baptiste-Pierre Le Brun ed è già una nota pittrice.
Talento e pennelli alla Corte di Francia ed è proprio lì che Madame vi condurrà, nella sale della radiosa Versailles.
E’ una triste nostalgia la sua, le sue parole sono spesso velate di malinconia.
Madame Le Brun detestava le parrucche, la cipria e la moda femminile del suo tempo, le piacevano gli scialli e i drappeggi, prediligeva pettinature naturali, le stesse che si possono ammirare nei suoi autoritratti.
Una pittrice a Corte, lei dipinge ritratti di tutta la famiglia reale e soprattutto immortala la sovrana Maria Antonietta, donna dalla graziosa bellezza e dalla pelle chiara e trasparente, dal portamento elegante e fiero.
Una regina tanto detestata dai rivoluzionari quanto amata da Madame Le Brun che di lei sottolinea la gentilezza e la bontà.
Élisabeth conobbe tutto quell’universo di persone che ruotava intorno a Versailles.


Incontrò Madame Campan, prima di cameriera di Maria Antonietta e anch’essa autrice di memorie di corte, le sorelle di lei, Madame Augueir e Madame Rousseau.
Ritrasse la principessa di Lamballe, nobildonna nota per la sua fedeltà alla corona, che cadrà vittima dei rivoluzionari: la sua testa verrà messa in cima ad una picca e sarà portata in giro per le strade di Parigi in un lugubre e triste spettacolo.
Nobildonne e cortigiane, una in particolare colpì Madame Le Brun: è  Jean Du Barry, un tempo favorita di Luigi XV.
Quando lei la incontra ha già 45 anni, è una donna piacente ma non bellissima, riceve la pittrice nel palazzo a Louveciennes, dove trascorre il tempo passeggiando nello splendore di quel parco.
Jean, che indossava solo abiti di mussola e di percalle, dopo pranzo era solita recarsi con la pittrice in un salotto ricco e splendido dove un tempo si intratteneva a pranzo con Luigi XV.
Al tempo dell’incontro con Elisabeth a godere dei favori di Jean Du Barry era il duca di Brissac, che verrà anch’esso massacrato e decapitato, la sua testa verrà messa davanti agli occhi inorriditi di a Jean.
Tragedie della Rivoluzione, Madame Le Brun scrive che la Du Barry fu l’unica donna che sul patibolo supplicò il boia con parole e gesti disperati, tanto da commuovere la folla che era venuta ad assistere alla sua esecuzione.
Rivoluzione e fuga, ritratti lasciati incompiuti e una diligenza che conduce Madame Le Brun e sua figlia verso la salvezza, la sua vita sarà fitta di viaggi e di incontri, sarà in Italia, in Austria ed è qui che apprenderà la notizia della morte di Luigi XVI di Maria Antonietta.
E’ altrove Madame Le Brun, da tempo non legge più le gazzette, da quando vi ha trovato i nomi di suoi conoscenti tra le persone ghigliottinate tenta di tenersi lontana da quegli orrori.
Ma la notizia arriva per lettera, nelle parole vergate dal fratello di lei.
La attendono altri viaggi, la Russia e l’Inghilterra, ritornerà nella sua Francia e nella sua Parigi.
Ebbe una vita densa di avvenimenti e di incontri, le sue memorie sono uno splendido spaccato sul suo tempo, una maniera per incontrare e guardare mondi passati attraverso gli occhi di una grande artista.
E io vi ho appena accennato ai suoi giorni francesi, al tempo della regina Maria Antonietta e della Rivoluzione, se siete appassionati di questo periodo storico Memorie di una ritrattista è un testo che merita, se fosse fuori edizione vi consiglio di cercarlo in biblioteca, sono certa che ne gradirete la lettura.
E poi ci sono i quadri di Élisabeth Vigée-Le Brun, quei sorrisi appena accenati e le carnagioni diafane, quei colori accesi e quei cappelli piumati, i bimbi di corte e le nobildonne.
Sono i quadri di lei che fu una ritrattista alla corte di Francia.

Giovinezza, genio ed eternità

Il genio, il genio è estro, creatività, illuminazione.
Nelle sue varie espressioni artistiche il genio è passione, spesso giovane età, a volte incoscienza.
Da sempre, ogni volta che leggo un libro o una poesia, quando osservo un quadro o ascolto una musica, ho l’abitudine di considerare l’opera d’arte e la sua dimensione temporale.
Quanti anni aveva il pittore che dipinse quest’opera?
E il compositore che ci ha tramandato questa musica immortale?
E il poeta che scrisse quei versi che ci toccano così nel profondo?
Quanti anni avevano?
Quanti di noi sanno rendere la propria vita immortale per mezzo del proprio genio?
L’arte è eternità, è vita che va oltre i confini del quotidiano, la grandezza del genio vive e respira nelle pieghe della bellezza, dell’armonia e della perfezione.
E l’arte spesso sboccia e si esprime in giovane età,  pensate al precocissimo talento di Mozart.
Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, visse 39 anni, ne aveva appena 22 quando dipinse questo quadro, Fanciullo con Canestro di Frutta.
Era invece ventottenne Ludwig Van Beethoven quando compose la Sonata per Pianoforte nr 8, nota come Patetica.
E 28 erano gli anni che aveva Egon Schiele quando morì, qui c’è un suo autoritratto che risale ai suoi 22 anni.
Giovinezza, caducità, genio.
E subito viene alla mente Giacomo Leopardi con i suoi tormenti, appena ventunenne scrisse l’Infinito, parla a noi e parla anche di noi, c’è sempre un filo trasparente che ci lega a certe parole.
Sono nostre, eppure non siamo stati noi a scriverle.
Sono nostre, quando non le capivamo quasi sembrava che ci annoiassero.
Le abbiamo comprese dopo, più tardi, quando siamo stati capaci di sostenere che quelle parole sono anche nostre.
Cos’è il genio?
Il genio è immaginazione e tormento, è inquietudine, a volte è incomprensione.
Il genio è manifestazione delle possibilità dell’uomo ma non è arte che si possa apprendere, alcuni nascono con questa scintilla che li fa brillare nel buio, li fa emergere ed essere altro rispetto alle moltitudini.
A volte per questo alcuni pagano un caro prezzo, la loro stessa felicità.
Il genio è rarità, se così non fosse forse non sarebbe tale.
Il genio.

Je ne parlerai pas, je ne penserai rien;
Mais l’amour infini me montera dans l’âme,
Et j’irai loin, bien loin, comme un bohémien,
Par la Nature, — heureux comme avec une femme

Io non parlerò, non penserò più a nulla:
Ma l’amore infinito mi salirà nell’anima,
E me ne andrò lontano, tanto lontano come uno zingaro,
nella Natura – lieto come con una donna.

E questo è Arthur Rimbaud, nel 1870, a sedici anni.
Il genio è fragile, il genio è introspezione e riflessione.
E’ guardare il proprio tempo e nello stesso istante guardare oltre, forse senza neppure sapere che si supererà la barriera della proprio limite, il proprio tempo e la propria vita.

My foot is on the Tide!
An unfrequented road –
Yet have all roads
A clearing at the end.

Il mio piede è sull’onda!
Strada non frequentata –
Eppure tutte le strade
hanno una radura al termine.

E colei che cammina per questa strada non frequentata è la ventottenne Emily Dickinson.
Il genio percorre spesso sentieri accidentati, poco battuti, estranei ai più.
E poi trova una luce, a volte resta nel buio, a volte rimane a tormentarsi su strade irte di vetri e di ostacoli.
Ma è genio, è rarità, pietra preziosa.
E in certi momenti della nostra vita noi lo incontriamo, si insinua nelle nostre giornate, nei pensieri che non sappiamo esprimere, nelle parole che vorremmo dire se sapessimo pronunciarle.
Ci sono altre parole, non nostre ma ugualmente nostre.
E altre musiche, suggestioni, sentimenti, espressione di qualche genio che abbiamo la fortuna di trovare sul nostro cammino, a volte irto di vetri e ostacoli.
E allora ci si sente compresi, capiti, da qualcuno che non ci ha mai sorriso e neppure parlato, se non attraverso un quadro, un romanzo, una melodia o una poesia.
E questa è la grandezza del genio.
Tocca, freme, muove un sussulto.

O ye! Who have your eye-balls vex’d and tir’d,
Feast them upon the wideness of the Sea;
Oh ye! whose ears are dinn’d with uproar rude,
or fed too much with cloying melody –
Sit ye near some old Cavern’s Mouth and brood,
Until ye start, as if the sea-nymphs quir’d!

O voi! Che avete gli occhi affaticati e stanchi.
date loro felicità con la vastità del mare;
Oh voi! le cui orecchie sono assordate da aspri fragori,
o troppo le nutriste di intense melodie
sedete vicino all’ingresso di un’antica caverna e meditate
finché trasalirete, come al coro delle Ninfe Marine!

On The Sea, John Keats, composta nel 1817, a 22 anni

Mare (2)

L’arte, infiniti mondi

L’arte, la bellezza e la sua percezione.
Quali strade conosce l’arte per suscitare tensione emotiva?
E in che misura un’opera è in grado di colpirci e smuovere dentro di noi certi sussulti?

L’arte è fatta per disturbare. La scienza per rassicurare.

E queste sono parole di Braque, le condivido.
L’arte fa anche pensare, immaginare, sognare, crea tumulti interiori e sensazioni diverse.
L’arte sa essere eterea e gentile, una figura botticelliana suscita un senso di pace e di armonia.
L’arte è invece sensuale e sinuosa nelle donne di Gustav Klimt, alcune di loro sono davvero conturbanti e misteriose.
E’ gioiosa e vitale nei quadri di Fragonard, quelle fanciulle in altalena che lui dipinse sono la personificazione della grazia, guardate qui.
L’arte è l’oscuro lato della vita nelle linee di Egon Schiele, un pittore che amo tanto, a Vienna mi sono persa a guardare i suoi quadri, quelle facce distorte e quei corpi scarni, quegli occhi stralunati e sconvolti, c’era in loro il senso di bellezza seppur così trasfigurato e particolare.
La nostra percezione dell’immagine che stiamo osservando è anche il frutto della somma delle nostre esperienze, oggi sfogliando un libro d’arte mi sono ricordata di uno studio che lessi diversi anni fa sulla morale e sulla percezione dell’arte nell’epoca vittoriana.
Un grande scultore, Antonio Canova: pensate alle Tre Grazie, io non saprei immaginare nulla di più celestiale e distante dalla dimensione terrena.
Questa è la mia percezione, Gustave Flaubert, al contrario, trovava sensuale la statua di Amore e Psiche, se non la rammentate potete vederla  qui.
Vi pare possibile?
Il nostro sentire di uomini di questo tempo è diverso e lontano da quello dell’epoca dell’autore di Madame Bovary.
E ricordo che mi colpì leggere di un pittore che alla sua epoca suscitò grande scandalo, un maestro autore di molti capolavori: Edouard Manet.
La percezione dell’immagine, la figura femminile rappresentata nella sua naturalezza, un quadro che suscitò lo sdegno di certi benpensanti, Déjeuner sur L’Herbe, lo trovate qui.
Una colazione sull’erba, una fanciulla senza nulla indosso e due giovani distinti, un cesto di vivande, un’amabile conversazione.
E lo scandalo, lo stesso che susciterà Olympia, la potete vedere qui, ancora una donna mostrata nella sua nudità, non è celeste né ideale, non risponde neppure a certi canoni di bellezza: è reale e quindi suscita sdegno.
I quadri di Manet sono esposti nei più grandi musei del mondo, il tempo è trascorso e un velo di dimenticanza è caduto sui suoi detrattori.
Il tempo rende giustizia, rende eterno ciò che merita di esserlo.
L’animo di un artista, in parte fatalmente legato alla sua epoca, è anche capace di superarla, di vivere al di là di essa, di stupire e affascinare, di trascinare e suscitare emozioni, oltre il tempo.
E questa è grandezza e immortalità.
E tanti mondi, infiniti mondi da conoscere.

Grazie all’arte, invece di vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi e quanti più sono gli artisti originali, tanti più sono i mondi a nostra disposizione.

(Marcel Proust)

Dipingere le stelle

Nella cornice di Palazzo Ducale, sabato  12 Novembre,  aprirà i battenti la mostra “Van Gogh e il Viaggio di Gauguin“, esposizione che si protrarrà fino al 15 Aprile 2012.
Saranno visibili  40 opere di Vincent Van Gogh, accanto alle quali si potrà ammirare un famoso quadro di Gauguin,  oltre a  capolavori di Kandinskij, Monet, Morandi, Turner e Hopper.
E’ un’occasione per immergersi nella bellezza, mai sufficiente per i nostri occhi abituati a troppe brutture, è un viaggio a ritroso, verso l’armonia e le visioni oniriche di artisti tanto grandi quanto indimenticati.
Già l’anno scorso a Palazzo Ducale era stata allestita una mostra di grande prestigio, Mediterraneo, che raccoglieva splendidi capolavori, marine e panorami tipici delle regioni che si affacciano su questo mare, usciti dai pennelli di Monet, di Matisse e di Courbet e di molti altri artisti di uguale importanza.
Le rocce e il mare, ognuno li ha dipinti alla sua maniera.
Per Jean Baptiste Olive l’acqua ha un colore acceso, vivace e brillante, per Auguste Renoir la vegetazione copre in parte la roccia, che invece predomina, in varie tonalità di grigio, sulla tela di Cezanne.
E il visitatore, in queste mostre, viene portato laggiù, su quelle spiagge, sulle quali si infrange la spuma del mare e le onde schizzano alte, facendo traballare una barca che, coraggiosa, tenta la navigazione.
E tra tante meraviglie c’era anche lui, Vincent.
Ed erano salici e campi di grano, era giallo, pallido ed ocra, con striature di arancio, punteggiato di toni più chiari, erano tinte splendenti e luminose nel contrasto con il color cartazucchero delle case e con il rosso dei tetti.
Questo per me è Van Gogh, colore e luce.
E Vincent sta per tornare, a illuminare una città ferita che ha bisogno di calore, di bellezza, di girasoli protesi verso l’infinito, di covoni di fieno e di iris in boccio.
L’immagine è della mia cara amica Susanna, persona di grande sensibilità che in uno scatto ha saputo cogliere la grandezza e la magnificenza della natura nello splendore delle colline marchigiane.
Animo inquieto, artista, sognatore, visionario e geniale, questo era Van Gogh.
E sue sono queste parole:

A volte sento un terribile bisogno – oso dire quella parola? – di religione.
Allora esco fuori, di notte, a dipingere le stelle.

 (Immagine di Susanna Cerere, luglio 2011)

Genova, 25 Novembre 1640: un omicidio insanguina Sarzano

Novembre, a Genova, è un mese inclemente.
L’aria è spesso gelida, il cielo plumbeo, le notti scure.
E nera come la pece è questa notte.
Quante volte ho fatto questa Salita, e di giorno sembra assai meno ripida, così pensa il giovane uomo. Sanguina, è ferito. Un medico già lo ha soccorso e medicato, ma lui fatica a camminare.
Procede lentamente, gli amici lo sorreggono, cercano di rincuorarlo.
Lui, un gradino dopo l’altro, arranca su per Salita San Leonardo.
Casa: nelle sere d’estate, pensa il giovane, casa mia è un fiume di luce.
E i colori, oh,  i colori!
La notte tinge tutto di nero, ma quando verrà giorno, domani, ancora vedrò i colori, i miei colori.

Una porta si apre, trambusto, rumore, grida.
Il padre, la madre, i fratelli, la giovane moglie, tutti quelli della famiglia accorrono.
E le lacrime, i pianti. A lui, perché è successo a lui?
Lo adagiano sul letto, la madre posa sulla sua fronte una pezza bagnata, la giovane sposa gli stringe la mano, gli accarezza le palpebre, si rigira tra le dita le ciocche dei suoi capelli, lo bacia, piano piano, come se temesse fargli male, poi si addormenta, lì accanto a lui, non lo lascia solo, non quella notte, come non lo ha lasciato mai.
Ma chi è quel giovane? Come è arrivato lì, esangue, con il ventre squarciato da un coltello?
Si chiama Pellegro ed ha solo 23 anni.
E’ nato il 5 giugno del 1617, da Francesco Maria Piola e da sua moglie Maddalena.
Nel suo albero genealogico figurano mercanti, filatori di seta ed orefici, ma suo nonno Gio Gregorio era un pittore e pittori sono tutti gli altri componenti della sua famiglia.
Così Pellegro e i suoi fratelli, Gerolamo, Domenico e Gio Andrea.
E lo furono anche i loro discendenti: una dinastia di artisti che ha creato opere d’arte di grande valore.
In Salita San Leonardo i Piola hanno casa e bottega, e le loro tele sono splendide, enormi, ai giorni nostre potete ammirarle nei Musei di Strada Nuova, a Palazzo Spinola, al Museo di Sant’Agostino e in molti altri luoghi dove sono esposte.
Cliccate qui e soffermatevi sul secondo e sul terzo dipinto, entrambi sono opera di Pellegro Piola e sono visibili a a Palazzo Rosso.
I fratelli Piola, talento e genio, erano tra i migliori pennelli del loro tempo.
Raffaele Soprani, biografo di innumerevoli artisti liguri, contemporaneo di Pellegro e suo amico personale, racconta che il pittore appena dodicenne andò a bottega da Gio Domenico Cappellino dove acquisì un sì perfetto stile e dove imparò ad esprimere la sua insolita finezza d’ingegno.
E’ l’epoca di Van Dick, di Rubens, di Velasquez.
Racconta ancora il Soprani che Pellegro riprodusse le opere di Parmigianino e  ridipinse  il Cenacolo di Luca Cambiaso aggiungendo perfezione ad un’opera già perfetta.
Molteplici furono i committenti di Pellegro, egli dipinse per le più insigni e nobili famiglie della città.
E’ il 1640, anno della sua morte: il giovane pittore è all’apice della sua fama.
La Corporazione degli Orefici gli ha commissionato il ritratto di una Madonna, che verrà posta proprio nella Via degli Orefici, al civico nr 18.
Pellegro, entusiasta, si mette al lavoro.
Con il suo talento, la sua tecnica magistrale, dipinge su ardesia un’opera di fine bellezza il cui originale è attualmente conservato presso l’Accademia Ligustica delle Belle Arti di Genova.
Al suo posto, in Via Orefici, è stata posta una copia fedele opera del pittore contemporaneo Raimondo Sirotti.
L’opera viene esposta: è un tripudio, un successo senza precedenti per il giovane Piola.

E’ la sera del 25 Novembre, Pellegro con un gruppo di amici esce a far baldoria.
Sono in parecchi, si dirigono verso Sarzano, racconta sempre il Soprani.
Si gioca a carte, si mangia, si beve, il vino scorre a fiumi e i commensali non si risparmiano nel far bisboccia.
Al banchetto segue un parapiglia, una rissa, volano i coltelli e un fendente colpisce il giovane pittore nella pancia.
Ma chi è stato? E perchè?
Il dettaglio della storia si può leggere nel testo  Pellegro Piola  di Virgilio Zanolla edito da Nuova Editrice Genovese.
Questo studioso ha fatto un sublime lavoro di cesello ricostruendo gli eventi, consultando i tanti testi che narrano la vicenda e i documenti d’archivio relativi alla indagini che al tempo furono condotte sull’omicidio di Pellegro Piola.
Nel suo libro troverete testimonianze e stralci del processo; se siete interessati all’argomento, vi consiglio di procurarvi questo testo avvincente ed esaustivo, oltre che molto dettagliato riguardo alla parte pittorica.
Si narra che, tra i molti che quella sera accompagnavano la vittima, c’era anche un prete, anch’egli pittore, un certo Giovanni Battista Bianco.
Pellegro, ferito a morte, non accusò nessuno né fece mai nomi  riguardo al suo aggressore.
Morì la mattina del 26 Novembre 1640, il giorno successivo al suo ferimento.
Si narra però che quando il Piola ricevette i primi soccorsi, presso di lui giunse anche il Bianco il quale, disperandosi e piangendo, chiese perdono all’amico per averlo erroneamente ferito; parrebbe quindi che, nel corso di un’accesa rissa, i colpi che lacerarono le carni di Pellegro fossero destinati ad altri.
L’indagine sull’omicidio del Piola era però assai lontana da essere conclusa.
Nel 1641 i Supremi Sindacatori della Repubblica ricevettero un biglietto di calice sul quale si leggeva che il Bianco altri non era che un sicario, al soldo di pittori invidiosi del talento e del genio di Pellegro.
La Rota Criminale condannò il Bianco a 5 anni di carcere per il ferimento e 2 di bando, per possesso abusivo di pugnale.
Essendo anche prete, fu giudicato anche dal Vicario Episcopale e con ricchezza di dettagli lo Zanolla racconta come tra la Rota Criminale e la Curia venne a crearsi una sorta di conflitto, in quanto l’una non riconosceva l’altra come competente per giudicare l’imputato.
I fratelli di Pellegro, nel 1646, concessero il perdono all’omicida.
Lui, il Bianco, continuò la sua modesta opera di pittore, privo di quella grandezza e di quel fulgore che possedeva colui al quale tolse la vita.
Quando venite in Carignano, scendete giù per la mattonata di San Leonardo.
Verso il fondo, sulla vostra destra, c’è un edificio con varie pitture sulle facciata.
Guardate bene l’architrave, leggete cosa c’ è scritto.

Nemico, paventa questa porta.

Qui visse, dipinse, creò e morì Pellegro Piola, pittore.

Simonetta Cattaneo, la sans pareille

Fu considerata la donna più bella del suo tempo, decantata dai poeti e ritratta dai pittori, ed è grazie a loro se la sua grazia e la sua venustà sono giunte intatte ed immutate fino a noi.
E’ lei la fanciulla bionda ritratta nel quadro la Madonna della Misericordia del Ghirlandaio che si trova nella cappella della chiesa di Ognissanti a Firenze.
E’ ancora lei la creatura celeste immortalata da Sandro Botticelli nel quadro La nascita di Venere: ha forme eteree e sinuose, è coperta solo dai lunghi capelli, il suo viso è un ovale perfetto, gli occhi sono grandi, chiari e luminosi.
Lui, Sandro Filipepi detto Botticelli, fu uno dei suoi più grandi estimatori e ne fece la sua musa, regalando così alla sua immagine l’eternità.
Simonetta Cattaneo nacque a Genova, o forse a Fezzano Ligure, nel 1453, da Catocchia Spinola e da Gaspare Cattaneo e appena quindicenne andò in sposa al coetaneo Marco Vespucci, discendente di una ricca famiglia fiorentina. Fu, secondo l’uso del tempo, un matrimonio combinato volto a consolidare la stabilità economica di famiglie blasonate e potenti.
Ed accadde così che la bella Simonetta, con il suo corredo da fresca sposa, lasciò la casa paterna e con il suo giovane marito si stabilì a Firenze, a quel tempo governata da Lorenzo il Magnifico.
Ed è alla corte dei Medici che sbocciò il fiore di Simonetta: con la sua bellezza, la sua soavità divenne in breve tempo la fanciulla più ammirata di Firenze.
E Giuliano, fratello minore del Magnifico, si innamorò perdutamente di lei.
La sua passione per questa creatura di eccezionale bellezza è giunta fino a noi grazie ai versi di Angelo Poliziano nel componimento dal titolo “Le stanze per la giostra del magnifico Giuliano”.
In questo poemetto il giovane, tutto dedito alla sua passione per la caccia, non si cura dell’amore, finché un giorno Cupido scocca dal suo arco una freccia che lo colpisce dritto al cuore, facendolo innamorare della ninfa Simonetta.
Così la poesia, così la realtà.

La fanciulla al centro che volge lo sguardo indietro è Simonetta Cattaneo
così ritratta nella Pala di Ognissanti di Ludovico Brea

La giostra era un torneo cavalleresco, per il quale il premio in palio era un ritratto di Simonetta dipinto da Botticelli, sul quale è scritto: La Sans Pareille.  Simonetta, la senza paragoni, è la luce di Giuliano, d’amor e d’un disio di gloria ardendo, scrive Poliziano.
E l’innamorato, forte della passione che gli brucia nel petto per la sua adorata, si batte per lei e vince trionfante contro il suo avversario.
Giuliano e Simonetta: sarà proprio Botticelli a ritrarli insieme nel suo capolavoro, La Primavera.
In questo quadro il giovane De Medici indossa le vesti di uno scultoreo Mercurio e la Cattaneo, ondeggiante nei suoi veli, è una delle Tre Grazie, quella che si trova al centro e viene ritratta di profilo.
E ancora, nel  Venere e Marte, il volto della dea dell’amore è sempre quello angelico e soave di Simonetta.
Tanto eterna ed immortale è l’immagine di Simonetta Cattaneo, quanto breve e fugace fu la sua esistenza terrena.
A soli ventritré anni Simonetta morì, colpita dalla tubercolosi e due anni dopo lo stesso Giuliano perse la vita assassinato nella congiura dei Pazzi.
Ed è ancora un testimone del tempo ad aver lasciato a noi il ricordo della prematura fine di questa ragazza: è il fratello di Giuliano, Lorenzo il Magnifico, che per lei scrisse dei sonetti. E nel suo “Comento de’ miei sonetti” narra la fine di Simonetta e racconta di come i fiorentini tutti, uomini e donne, fossero pieni di ammirazione per lei, ricorda che la Cattaneo nella morte trovò una bellezza ancora superiore di quella che aveva in vita, già considerata ineguagliabile. Queste sono le sue parole, che ci riportano indietro fino a quegli anni.

Morì, come sopra dicemmo, nella città nostra una donna, la quale se mosse a compassione ugualmente tutto il popolo fiorentino, non è gran maraviglia perchè di bellezze e gentilezze umane era veramente ornata, quanto alcuna che innanzi a lei fusse suta. E in fra l’altre sue eccelenti doti avea e attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei avevono qualche domestica notizia credevono da essa sommamente essere amati. … E se bene la vita sua, per le sue degnissime condizioni, a tutti la facessi carissima, pure la compassione della morte, e per l’età molto verde e la bellezza, che così morta, forse più che mai alcuna viva mostrava, lasciò di lei un ardentissimo desiderio. E perchè da casa al luogo della sepoltura fu portata scoperta, a tutti che concorsono per vederla mosse grande copia di lacrime: de’ quali, in quelli che prima n’avevono alcuna notizia, oltre alla compassione nacque ammirazione che lei nella morte avesse superato quella bellezza che, viva, pareva, insuperabile.”

E questo, dolce e struggente, è il sonetto composto in morte di Simonetta:

O chiara stella, che co’ raggi tuoi
togli alle tue vicine stelle il lume,
perché splendi assai più del tuo costume?
Perché con Febo ancor contender vuoi?

Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi
Morte crudel, ch’omai troppo presume,
accolti hai in te: adorna del lor lume,
il suo bel carro a Febo chieder puoi.

O questa o nuova stella che tu sia,
che di splendor novello adorni il cielo,
chiamata esaudi, o nume, e voti nostri:

leva dello splendor tuo tanto via,
che agli occhi, che han d’eterno pianto zelo,
sanza altra offension lieta ti mostri.

Fece di più, il Magnifico: commissionò al pittore Piero di Cosimo questo ritratto, in qualche libro ricordo di aver letto che la serpe posata sul collo della fanciulla forse rappresenta l’insidia della malattia che pose fine alla sua vita.
Sandro Botticelli, il pittore che più la amò e la dipinse nelle sue splendide fattezze, chiese come ultimo desiderio di essere sepolto ai suoi piedi, e lì riposa, a Firenze, nella chiesa di Ognissanti.
Simonetta, con la sua gioventù troppo presto perduta, rimane ancora oggi come lui la definì: la sans pareille.

Cicely, l’amica dei bimbi e delle fate

Chi non conosce le Fate dei Fiori?
Se ne stanno in punta di piedi sul bordo di una foglia, che non pare per nulla appesantita dal loro lieve peso, si reggono leggere ad un esile stelo, si siedono tra i boccioli o si accoccolano sul polline, se ne vanno a spasso con un rametto di bacche tra le braccia e, se sentono troppo caldo, cercano ristoro all’ombra di un papavero o di una foglia di nasturzio.
Fate e folletti dei fiori, degli alberi, dei giardini, dei sentieri.
Fate dell’alfabeto, delle quattro stagioni, con i loro abitini dai colori sgargianti, drappeggiati come la corolla del fiore che rappresentano, con le ali aggraziate, quasi trasparenti, rosee.
Chi le inventò lasciò a grandi e piccini una grande eredità, un piccolo universo di magia e di armonia: il suo nome, melodioso come quello di una delle sue creature, è Cicely.
Cicely Mary Barker nacque nel Surrey, a Croydon, nel 1895.
Di salute malferma, da bambina soffrì di epilessia e pertanto, costretta per lunghi periodi a letto, trascorse molto tempo in solitudine a disegnare e a leggere.
Più grande studierà arte per corrispondenza, sviluppando così il suo talento e Cecily ne aveva tanto, così come era dotata di una spiccata fantasia e di grande dimestichezza con i pennelli: la sua tecnica comprende l’uso degli acquarelli, delle pitture ad olio e dei pastelli.
Aveva anche una profonda conoscenza della botanica e, se voleva dipingere piante e fiori che non riusciva reperire, se li procurava nelle serre londinesi di Kew Gardens.
Appena quindicenne pubblicherà alcuni dei suoi lavori, sotto forma di cartolina e, nel 1923, darà alle stampe il suo primo libro, Flowery Fairies of the Spring.
Le immagini di questo e degli altri libri che seguiranno sono accompagnate da versi in rima, brevi poesie che Cicely componeva raccontando le storie e le avventure delle sue fate.
Sono l’emblema della purezza e dell’innocenza le fate di Cicely, in loro c’è grazia, candore e armonia.
Nata alla fine dell’epoca vittoriana, la Barker subì l’influenza dei pittori maggiormente in voga a quel tempo, in particolare i preraffaelliti, tra i quali prediligeva John Everett Millais e Edward Burne-Jones.
Guardate i loro quadri e poi guardate i disegni di Cecily.
Osservate l’incanto trasfigurato nel bacio a fior di labbra tra la Fata Ginestrone (Goose Fairy) e il suo innamorato: lei si china verso di il suo folletto e lui si protende verso di lei, con una lievità incomparabile.
E la Fata del Salice (Willow Fairy), che timida immerge la punta del piedino nell’acqua di uno stagno mentre intanto si sorregge ad un rametto, è davvero eterea con un angelo, mentre la Fata non ti scordar di me (Forget-me-not Fairy) inginocchiata alla base del suo fiore, lo ammira con uno sguardo così trasognato e sperduto da far pensare proprio ad  alcuni quadri della corrente pittorica preferita dalla Barker.
I bambini ritratti da Cicely sono tutti reali: erano gli allievi della scuola d’infanzia della sorella, erano figli e parenti di amici, per l’occasione trasformati in folletti e creature del bosco.
La Fata Primula (Primrose Fairy), ad esempio, altri non è che la piccola Gladys Tidy, la giovane domestica di casa Barker.
Per i suoi piccoli modelli, Cicely creava dei costumi, costruiva le alette e, nel dipingerli, curava ogni minimo particolare per renderli più reali possibili in ogni dettaglio.
E allora, se penso a lei, è così che la immagino: seduta sotto un albero, di fronte al suo cottage, in una fresca giornata estiva.
Davanti a sè ha il cavalletto con i suoi fogli, i colori, tanti e variopinti, sono sparsi ai suoi piedi e attorno a lei, con quei gonnellini di stoffa, ecco la margheritina , la fucsia e la lavanda, e poi la mora, che ha i riccioli neri, il nasino all’insù e la bocca carnosa e più discosto, vicino ad un cespuglio,  un ragazzino con un’espressione furbetta che indossa un buffo cappellino di foglie, poi un bimbo abbigliato con le tinte del nocciolo e una piccina con una vestina candida e una coroncina di fiori in testa ad  incorniciarle i capelli.
Non si sposò mai Cecily né ebbe mai dei figli.
Ebbe gli elfi, le fate dei fiori, degli alberi e dei sentieri.

Sandro Botticelli e il dolce sapore della vendetta

Nel suo magistrale testo “Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti” il Vasari, oltre a narrare nel dettaglio la formazione e le opere dei maggiori artisti, racconta brevi aneddoti di vita quotidiana davvero gustosi.
Sandro Botticelli, riferisce il Vasari, era un tipo facile allo scherzo
Un giorno, venne a vivere accanto a casa sua un tessitore.
Il tessitore aveva allestito ben otto telai e, quando questi lavoravano a pieno regime, producevano un gran fracasso, facendo persino tremare i muri della casa di Botticelli.
Il pittore, infastidito, si recò dal vicino, facendogli presente che, con tutto quel rumore, lui non riusciva più né a lavorare né a starsene in santa pace a casa sua.
Il tessitore, malgrado le vibrate e ripetute proteste di Sandro, imperterrito continuò a far andare i suoi telai al solito ritmo, incurante di provocare disagio e malessere nel suo prossimo.
Anzi, in occasione di un alterco con il Botticelli, lo liquidò, secondo il Vasari, sostenendo che in casa sua voleva e poteva far ciò che più gli piaceva.
Botticelli, furibondo, se ne andò.
Lungi però dal volerla dar vinta ad un campione di arroganza e prepotenza, mise in atto quello che, senz’ombra di dubbio, si può definire un colpo di genio.
Il muro della casa di Botticelli, infatti, era molto più alto di quello della casa del tessitore e l’astuto Sandro pose proprio lì sopra, in bilico, un pesantissimo e gigante masso, che, ad ogni vibrazione del muro, prendeva ad oscillare dando l’impressione di dover precipitare da un momento all’altro, abbattendosi sul tetto e sui telai del vicino.
Il tessitore, spaventatissimo, corse subito da Botticelli, pregandolo di porre rimedio a quella pericolosa situazione e spiegando che no, lui non poteva vivere così, con la minaccia incombente di un macigno che traballava sulla sua testa e col rischio di finire morto schiacciato.
E Botticelli, beffardo, replicò: in casa mia voglio e posso far ciò che più mi piace.
Vasari non ne parla, ma io sono certa che con quel suo gesto Sandro Botticelli , oltre alla quiete ritrovata, si sia garantito a vita una fornitura di mantelli.
E dei tessuti più pregiati, s’intende.

Picasso, Van Gogh e i ladri di sogni

E’ notizia di oggi che un tizio, a San Francisco, ha candidamente staccato dalla parete della Weinstein Gallery un’opera di Picasso e, con quella sotto il braccio, ha imboccato la porta ed è svanito nel nulla.
Fortunatamente, il ladro è stato arrestato e la preziosa opera recuperata.
Comunque, un interrogativo suscita in me un certo sconcerto.
Davvero esiste qualcuno al mondo che pensa di poter “possedere” un Picasso?
Per il breve tempo in cui ne è stato in possesso, mi immagino questo signore, seduto nel salotto di casa sua, con il disegno del grande Pablo sulle ginocchia.
Sarà stato fiero di se stesso, indubbiamente.
Magari aveva commesso il furto su commissione, e la sua impresa doveva fruttargli un bel po’ di denaro.
O magari l’aveva sottratto solo per sé, per poterlo avere, perché fosse suo, soltanto suo. In questo caso, avrebbe dovuto tenere sempre ben nascosto il suo tesoro, non avrebbe potuto esporlo, ma bensì conservarlo nel fondo di un cassetto o chiuso in un armadio e, privandolo della sua visibilità, avrebbe ucciso la sua essenza, il suo significato, il messaggio di bellezza ed armonia che, col suo tratto, Picasso aveva lasciato su quella tela.
Anni fa, ricordo, un miliardario giapponese si aggiudicò ad un’ asta da Christie’s la prima versione di un’opera di Vincent Van Gogh, il Ritratto del Dottor Gachet. L’eccentrico magnate alla sua morte venne cremato, ma si ignora se gli eredi abbiano seguito le sue ultime volontà.
Aveva richiesto, infatti, che tutti i suoi beni più pregiati, compreso il famoso ritratto, finissero in cenere insieme alla sua salma.
Povero, triste miliardario, mi ricorda tanto il contadino Mazzarò del Verga, il protagonista di “La Roba”, così attaccato ai suoi beni terreni da volerli portare con sé nell’oltretomba.
Per quanto un quadro sia un oggetto materialmente tangibile, il suo reale valore va molto al di là della mera quotazione di mercato.
Il languore delle donne dipinte da Klimt, le facce espressive e intense del Caravaggio, il candore che si legge nello sguardo perduto di Ophelia di Millais, sono un patrimonio che pochi hanno il dovere di tutelare e tutti hanno il il diritto di poter ammirare.
Per potersi perdere in un paesaggio, in una sfumatura, in una riflesso di luce che non t’aspetti, in un’espressione che rende materia il genio dell’uomo.
Chi crede di poter far sua questa grandezza, a mio parere, commette un crimine.
Chi ci priva di questa bellezza è un ladro di sogni.
Penso.
Provo a pensare come sarebbe vivere, se qualcuno avesse preso gli spartiti di Chopin, di Beethoven o di Mozart e li avesse chiusi in cassaforte.
E nessuno, da quel giorno, avesse più saputo suonare una nota scritta da questi grandi compositori.
Saremmo rimasti soli, senza notturni, né variazioni, né chiari di luna.
Saremmo rimasti soli.
E saremmo stati infinitamente più poveri.