Il mio albero di Natale e cose che piacciono a me

Come da tradizione ieri mi sono dedicata a fare l’albero di Natale.
Dovrei dire gli alberi, a dire il vero, in casa mia ce ne sono ben quattro: uno rosso con le campanelle argentate se ne sta sul mobile della cucina, un piccoletto tutto dorato è nella mia camera e in ingresso c’è un abete decorato con i toni dei blu.

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E anche quest’anno ho arricchito le decorazioni, accanto ai cervi adesso ci sono scintillanti stelline.

Natale (3)

Sono tantissime le cose che mi piacciono del Natale.
Le lucine a intermittenza, i nastri e la carta lucida dei pacchetti.
Il torrone morbido, i film alla TV, sempre gli stessi, attendo già con impazienza Il Piccolo Lord.
Mi piacciono il panforte e il pandolce alto, il cesto con la frutta secca e le noccioline da rompere con le mani.
E lo ammetto, da sempre ho una predilezione per la ballerina che si trova nella confezione dei datteri, anche per voi è così?
La musica, la musica di Natale.
White Christmas e Jingle Bells in sottofondo, le scatole tutte per terra e l’albero da decorare.
E sarà maestoso, luccicante e allegro.

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E riecco certe vecchie conoscenze, bentrovato caro cavallino a dondolo!

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Quest’anno ho aggiunto un piccolo e panciuto Babbo Natale, come potete notare va piuttosto di corsa!

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E poi c’è il cuore dallo stile molto british, ci sono decorazioni di tutte le forme e non mancano i miei amati uccellini.

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Din, don, dan: una campanella e un violino.

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Natale è tutto rosso e oro per me, poi magari a volte mi sembra quasi di sentire un cinguettio!

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E ancora, ho aggiunto la pallina vermiglia rifinita con le perline.

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C’è una fragola dolce e succosa, risale ai tempi della mia infanzia.

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E qua e là, sui rami del mio albero, ci sono leggiadre farfalle.

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E un funghetto come quello delle fiabe, naturalmente!

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Natale è colori, note e profumi, Natale è un’atmosfera.

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Natale per me è anche questo, il mio grande albero sfavillante di luci.

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Da un diario genovese del passato: memorie di casa

Ritornano su queste pagine i ricordi di un altro tempo tratti  dal diario di Francesco Dufour.
Accanto alle zie, alle nonne e ai numerosi parenti ci sono anche loro: i membri della servitù.
Bambinaie e domestici, cuoche e camerieri, in qualche maniera anch’essi membri della famiglia, resi reali dalla scrittura vivace del nostro caro autore.
E i loro nomi trasportano già il lettore in un’altra epoca: Rosa, Consolina, Adelaide.
Quest’ultima era di Pisa e fu la prima balia di Francesco, lui rammenta che ogni volta che lei andava a casa sua tornava poi a Genova con un “buccellato”, un dolce tipico delle sue parti a forma di ciambella.
Oltre a ciò ecco a voi le memorie di casa di casa Dufour, questo post si concluderà con una chicca, l’ennesima perla di genovesità che mi ha strappato un sorriso.

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Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri 

Alle persone di servizio si dava del voi, loro davano del lei; le toscane ci chiamavano signorini anche da giovanotti.
Papà esigeva il più grande rispetto per i dipendenti e se rivolgevamo loro qualche parola offensiva ci obbligava a chiedere scusa.
Ricordo la Maddalena, era una toscana grossa e tarchiata.
Un tempo tenevamo dei conigli su un terrazzo, lei andava con me, sopra Sant’Ugo, dove allora c’erano i prati e portava delle bracciate d’erba.

Via Sant'Ugo

Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri 

Per lo più c’era una donna grossa per le pulizie e il bucato ed un’altra per cucire e stirare.
Veniva a fare il bucato ordinario una certa Assunta, la lavanderia era in soffitta, ci si gelava e ricordo la compassione che mi faceva vedere questa povera donna con le mani nell’acqua gelida.
Poi la biancheria veniva posta in un concone e ricoperta di cenere, si aveva sempre il terrore che qualche lavandaia poco scrupolosa adoperasse la varechina che tagliava la tela.

Casaleggio (2)

Poi veniva il Giuseppin, detto dalle donne Giuseppin senza paura, era un uomo di fatica, arrotolava i tappeti e raschiava il parquet con un pezzo di vetro.
Quando io ero bambino prendevamo i pasti dalla nonna Luigia, la madre di papà che stava al piano di sopra, si mangiava nella stanza gialla.
C’era a quel tempo l’uso ottocentesco di far colazione alle 11 e di pranzare alle 16, io arrivavo dalle scuole elementari alle 12 e naturalmente tutti gli altri avevano già finito.
All’una si sentiva mamà o la zia dire: “Che fastidiu, ghe a Marinin!” Era la pettinatrice che veniva tutti i giorni a pettinare le signore.

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Un’elegante signora genovese
Immagine appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

La nonna aveva il cuoco Lorenzo che sapeva fare tutti i piatti; alla sera presentava alla nonna un libretto con il menu per l’indomani.
Allora c’erano sempre una minestra e due piatti, ricordo delle incomparabili rissoleé.
La nonna a volte radunava le donne e le metteva a cucire, ricordo che diceva loro: “Figge, fee andaa l’agugia cumme a lingua!”

Stravagaria (6)

E questo è mio, è un regalo da una cara amica!

Seve la traduzione? Eccola qua: ragazze, fate andare l’ago come la lingua!
Poche chiacchiere, insomma, un sollecito affettuosamente garbato, la Signora Luigia mi è parecchio simpatica, mi pare quasi di vederla insieme a quelle ragazze intente a cucire.
E riguardo alla cenere usata per lavare il bucato ricordo che anche mia nonna me ne parlava, questo metodo arcaico, diceva lei, rendeva le lenzuola linde e perfette.
Fatiche che non sappiamo neppure immaginare, cose che potrebbe insegnarci la signora Assunta, lei sì che conosceva tutti i segreti per fare il bucato con la cenere!

La regina della casa

Ognuno ha le proprie idiosincrasie.
La mia, lo ammetto, consiste in un’avversione naturale e spontanea per i lavori domestici.
Passi per pulire la cucina, se si presta un minimo di attenzione il risultato è garantito abbastanza a lungo.
Sul bagno sorvolerei, una volta terminata la stancante impresa, bisognerebbe fare i bagagli e trasferirsi in albergo.
Non sottovaluterei, oltre tutto, il fatto che vi si trovano profumati campioncini di bagnoschiuma, la cuffietta monouso per coprirsi i capelli, asciugamani stirati alla perfezione e, se per caso schizzi l’acqua da tutte le parti, in fondo non è un problema tuo.
Soluzione ottimale, direi, anche se forse lievemente dispendiosa.
Tra le mie fortune, c’è quella di aver delle amiche che, in fatto di pulizie, sfiorano quasi la nevrosi.
Una, quando cucina, lo fa dotata di straccetto, da passare immantinente su ogni minima goccia che disgraziatamente dovesse caderle da qualche parte.
Il risultato, va da sé, è che il suo tavolo è sempre asettico, come quello del Dottor House, si potrebbe serenamente farci un’operazione a cuore aperto senza timore di infezioni.
Un’altra ogni tanto mi trascina allegramente a guardare i detersivi.
Ora, io le voglio bene ma, in tutta sincerità, non riesco ad entusiasmarmi per un detergente per pavimenti, che sia all’odor di pino o alla vaniglia poco importa, stazionare un quarto d’ora davanti a flaconi di plastica colorata non mi pare interessante.
Invece per lei sembra che sia più esaltante che trovarsi di fronte all’espositore di Dior, cosa che sono disposta serenamente ad accettare, purché non si pretendano da me eccessive manifestazioni di giubilo.
Un’altra amica, invece, ha una vera e propria filosofia sulla mistica dello stendere.
Potrebbe tenere dei cicli di conferenze in merito, dare alle stampe manuali d’istruzione ad alta tiratura, ne sono più che certa.
Io non lo sapevo, ma dietro lo stendino pare si nasconda un mondo, con tutta una serie di rituali al limite dell’esoterico riguardanti la scelta delle mollette, la disposizione degli indumenti per tipo e per colore, secondo una logica vagamente teutonica che fatico a comprendere.
Il mio stendibiancheria, per usare una metafora artistica, è molto pop art, alla Warhol; quello della mia amica, invece, è come una natura morta di Morandi, lindo e ordinatissimo.
Stirare, poi, è un’altra attività non molto divertente e, a parte il fatto che sovente mi provoco ustioni non proprio trascurabili, la lotta alle pieghe è facilmente impari: spesso vincono loro, ahimé.
Detto ciò, sono una gran cuoca. Non è per immodestia, ma tra mestoli e pentole me la cavo bene e per me è già un discreto risultato.
Bisogna tuttavia considerare che la buona riuscita delle mansioni casalinghe non dipende sempre dalla nostra volontà.
Certo, costanza, precisione e passione aiutano, ma la faccenda si complica quando capita di avere a che fare con macchinari mefistofelici che si rifiutano categoricamente di collaborare.
Sabato, precisamente alle ore 13.05 la lavatrice si è ammutinata.
Era ovviamente a pieno carico e, d’un tratto, ha cominciato ad emettere un rumore sinistro, tipo lo Shuttle in fase di decollo.
L’oblò faticosamente faceva mezzo giro per poi fermarsi, poi ripartiva e si ribloccava.
Sono stata in sua contemplazione per circa dieci minuti indi ho preso il telefono e ho chiamato l’angelo della misericordia, ovvero la suddetta amica Premio Nobel per l’arte del bello stendere e con voce tra l’allarmato e il perplesso ho pronunciato la fatidica frase:
– Houston, abbiamo un problema…
Lei abita al piano di sopra, per fortuna.
Dopo svariati vani tentativi, finalmente è partita la centrifuga.
L’amica gentile, dopo avermi comunicato affranta la prematura dipartita del suo aspirapolvere, avvenuta nella prima mattinata del medesimo giorno, mi ha proposto di lavare le mie cose da lei, ma io, fremendo dal desiderio di passare il pomeriggio a strigliare e strizzare, ho declinato l’offerta.
E’ stata una gioia inenarrabile lavare tutto a mano, davvero.
Comunque, con un certo disappunto, mi duole annotare che  sabato probabilmente era la giornata mondiale degli elettrodomestici suicidi.
Infatti, a causa di una specie di effetto domino dalle ragioni imponderabili, un paio d’ore dopo la lavatrice della mia amica del piano di sopra ha esalato l’ultimo respiro.
E’ partita, si è fermata, è morta. Defunta, per sempre.
Ovviamente di sabato. A luglio.
La mia credo sia in coma apparente o forse in fase di riflessione, come quegli uomini che ti dicono:
– Ho bisogno di tempo, forse io e te è meglio se per un po’ non ci vediamo.
Rispetterò i suoi spazi, s’intende.
Ma è con infinito orgoglio che vi annuncio che, nella stessa serata, la lavapiatti ha compiuto un intero lavaggio, e con pieno successo.
E queste, concedetemelo, sono soddisfazioni che ti fanno svoltare una giornata.

Neighbours

Come dicevo, da queste parti circolano personaggi ameni.
Il tizio qui sopra ha fatto una fugace quanto discreta apparizione qualche giorno fa.
Elegante e fiero, si è mantenuto a debita distanza, evitando cautamente inopportune manovre di avvicinamento.
Si è lasciato ritrarre in questa posa plastica e da principio mi pareva che sfoggiasse una certa aria di sufficienza e superiorità.
Ero in errore. Sospetto, semmai, che si trattasse di un caso di palese e manifesta vanità.
Timido e silente, non ha emesso un suono, nemmeno il più flebile cinguettio.
Silenzio assoluto, uno sguardo, carico di muta e reciproca simpatia, e poi via, verso nuove avventure.
Avendo mancato le presentazioni, mi è rimasta un’incertezza sulla sua misteriosa identità.
Forse lei potrebbe saperlo, immagino.
O qualcun altro tra voi, spero.
Comunque sia, che benedizione aver siffatti vicini di casa.

In volo

A parte i pappagalli, che talvolta sostano sul nespolo ma, per mia grazia, preferiscono andare a cianciare sotto casa di Mitì, che è notoriamente più tollerante di me, qua intorno è tutto uno svolazzare e un cinguettare.
In primavera, in batteria, arrivano le rondini. E, disponendosi come se fossero un battaglione da combattimento prendono a volare in cerchio attorno alla casa, in una sorta di competizione sportiva, stridendo ed urlando come delle pazze.
A volte planano in picchiata verso il basso  ma, devo dire, se la spassano mantenendo una certa distanza di sicurezza dagli umani, dettaglio di non trascurabile importanza.
Di tanto in tanto, poi, timide tortore pensose si posano sulla ringhiera.
Saltellano qua e là, si fanno un voletto, e poi ripartono.
Nelle vicinanze abita anche un merlo, petulante e ciarliero, che quando vuole sa farsi sentire, anche con una certa prepotenza.
Al tramonto poi, un non bene identificato uccellino se la canta che è una meraviglia.
Emette un fischio modulato e lo ripete consecutivamente per due o tre volte, in totale spensieratezza. Prende per i fondelli, in sintesi.
Non fa un tubo tutto il giorno e ci tiene a sottolineare che, così, si vive da dio.
Qualche giorno fa, improvvisamente: i gabbiani.
Ora, al di là delle reminescenze letterarie che portano subito alla mente il famigerato Johnathan Livingston, questi bianchi pennuti mi incutono un certo malcelato timore.
Sarà per la loro imponenza, per l’ampiezza della loro apertura alare o forse per quel becco leggermente ricurvo, che conferisce loro un’aria un po’ snob.
Sarà forse una suggestione Hichcockiana.
Sarà che sul giornale si trovano queste notizie.
Insomma, va finire che se ne vedi uno librarsi nel cielo ad ali spiegate e posarsi sul campanile della chiesa di fronte, tremi. Puta caso che decida, autonomamente, di colonizzare il tuo terrazzo, il tuo tavolo da giardino, la tua corda da stendere. Ecco, in questo caso, che si fa? Si trasloca? Che altro?
Lo ignoro, sinceramente e spero di non doverlo scoprire.
Fatto sta che i gabbiani hanno vagolato un po’ per i dintorni, per poi sparire nel nulla, abbandonando il presidio per lidi migliori.
Stamattina, solista nel profondo blu, si stagliava lei, una cutrettola.
Ha il pancino giallo, elegantissima. E’ passata così, veloce e improvvisa, senza fermarsi. Spero che torni.