Scoprendo Vico del Campanaro

Vi porto ancora con me in un caruggio della vecchia Genova, in un viaggio nel tempo che conduce in luoghi perduti.
Arriveremo così in Vico del Campanaro, uno di quei caruggi dei quali alla nostra epoca si è persa la memoria.
Se ne trova ancora traccia, invece, sui vecchi lunari e sui giornali della fine dell’Ottocento: era un vicoletto dalle parti dell’attuale Via Fieschi bassa e Via Porta d’Archi, a pochi metri dalla perduta Piazza di Ponticello e si estendeva tra Vico Rivotorbido e Vico Vernazza (in seguito denominato Vico Cavallerizza) questi due vicoli ai nostri giorni scomparsi risultano ancora esistenti sulla Guida Pagano del 1926 ma non c’è appunto notizia di Vico del Campanaro.
In proposito riesco solo a fare delle supposizioni e mi sembra verosimile l’ipotesi che il nostro Vico del Campanaro sia andato perduto probabilmente nella costruzione di Via XX Settembre che comportò diverse demolizioni.
Di certo del Vico del Campanaro si scriveva ancora nell’anno 1883, ho trovato infatti un breve articoletto in merito su uno dei numeri di settembre di quel tempo distante.
E così partiamo per questo viaggio nel tempo, passeggiamo in Vico del Campanaro che viene descritto come un caruggio piuttosto largo e diritto.
Sembra, scrive l’ignoto autore della nota, che il toponimo possa naturalmente derivare dai campanari che qui lavoravano alacremente nelle loro fonderie.

Deposito del Museo di Sant’Agostino

In alternativa, aggiunge sempre l’autore, potrebbe anche riferirsi all’antica famiglia dei Campanaro, i primi a far costruire agli inizi del ‘300 nella Cattedrale di San Lorenzo una cappella (ora non più esistente) all’epoca destinata alle sacre reliquie di San Giovanni Battista.
Questo gesto generoso garantì ai Campanaro un particolare privilegio: nel giorno delle loro nozze le donne della famiglia avevano il permesso di entrare nella cappella del Santo che era invece proibita a tutte le altre donne pena la scomunica.
Quante vicende vengono alla luce in un oscuro caruggio di Genova!
Era, tra l’altro, un dignitoso vicoletto, infatti si legge sull’articolo che c’erano ben 11 porte di case.
E poi, secondo l’uso e la devozione genovese, c’erano qui le consuete immagini sacre alle quali si saranno certo rivolti sguardi devoti.
Entrando da Vico Vernazza, infatti, si vedeva una statua della Vergine con Sant’Anna e dallo stesso lato un bassorilievo in pietra nera con l’immagine di Gesù al Calvario.
Davanti c’era poi un’altra edicola con una statua della Madonna con Gesù e San Giovanni Battista e sotto di essa la scritta: sub tuum praesidium – vicini pietatis causa.
Se tutto fosse come era allora certamente vi avrei davvero portato là mostrandovi questi antichi angoli genovesi: non conosco il destino delle statue che un tempo si trovavano in quel vicoletto perduto, nutro però la speranza che si siano salvate e siano conservate al Museo di Sant’Agostino dove vengono custoditi marmi, targhe, portali e antiche testimonianze preziose di Genova perduta.
In qualche maniera sono comunque tornata là con voi, nel caruggio con le undici porte.
Sono scesa giù da Vico Vernazza e seguendo la luce ho posato lo sguardo sulla statua della Madonna e poi mi sono soffermata a leggere le parole incise ai piedi di Lei: sub tuum praesidium, in Vico del Campanaro.

La Signorina Amelia

La Signorina Amelia camminava tra la folla.
Che baraonda in quella Piazza di Ponticello, una parte di Genova così popolaresca e vivace, vibrante di vita e di persone sciamanti tra le molte frequentatissime botteghe.
La Signorina Amelia giunse quindi a destinazione: là in quella piazza c’era anche lo studio del fotografo Arizio che l’avrebbe ritratta in tutta la sua aggraziata giovinezza.
Ora, la Signorina Amelia mi perdonerà se mi permetto di divagare e di fare qualche fantasiosa supposizione su di lei, mi sorge spontaneo ad osservare la sua immagine che ci restituisce il ritratto di una giovane donna bella e fiera.
La Signorina Amelia, io suppongo, si diletta con il punto intaglio e forse anche con il pianoforte, legge poesie e ama essere sempre alla moda ma con giudizio: la Signorina Amelia è una persona a modo, molto giudiziosa e previdente.
Così eccola, ve la presento, ritta tra gli arredi dello studio del bravo fotografo.

La Signorina Amelia indossa gli stivaletti con il tacco a rocchetto, i lacci e la punta tonda.
Sono calzature di buona qualità e con tutta evidenza lucidissime.

E poi, con la consueta cura, la Signorina Amelia ha scelto di indossare un paio di guanti scuri e di portare con sé questa vezzosa borsina riconoscibile tra mille!
Lei la tiene al braccio, con quella sua grazia garbata e tiene poi una mano posata su quel tavolinetto chiaro: è un gesto quasi impaziente o forse di semplice equilibrio e tutto è perfetto così, anche la collana dalle perle scure al collo della Signorina Amelia.

Alle soglie dell’età adulta, non più fanciulla e con un radioso futuro davanti, questa è semplicemente lei.
La osservo e la immagino dotata di un grande spirito d’indipendenza, intelligenza brillante e una naturale dolcezza: cara Signorina Amelia, sono certa che lei avesse tutti queste virtù e anche molte altre!
Così fiera, con il suo cappello elegante e gli orecchini a pendente, con quel medaglione che luccica sul suo petto.
La fotografia fu data in dono a una cugina come ricordo di quel tempo della vita.
Era un giorno del 1916 e questo è il sorriso della Signorina Amelia.

Il barchile di Piazza Ponticello

È un’antica fontana, le passiamo accanto ogni volta che percorriamo Campetto, nel cuore dei caruggi genovesi: qui l’acqua zampilla e sgorga come accadeva nei secoli lontani in un luogo diverso da questo.

La fontana che si ammira in Campetto era infatti un tempo collocata nella popolosa Piazza di Ponticello.
Questa storia antica è narrata con ricchezza di dettagli nell’articolo di Tomaso Pastorino dal titolo “I barchili e le fontane pubbliche di Genova” comparso sulla rivista Genova nell’aprile del 1964.
Su quelle pagine infatti si legge che il barchile fu richiesto dal reverendo Benedetto Cavazza e da Francesco Torriglia nel lontano 1642 con un’istanza presentata ai Padri del Comune.
Il barchile, scrissero questi lungimiranti genovesi, sarebbe stato di gran comodo per il popolo e per i poveri della Superba, sarebbe stata inoltre apprezzato anche dai viandanti e da tutti coloro che praticavano i loro commerci nella zona.
Per avere la tanto agognata fontana si era persino fatta una raccolta fondi e così, nell’estate di quello stesso anno, nelle mani del Magistrato dei Padri del Comune furono consegnate 350 Lire per il barchile da posizionare in Ponticello.

L’opera fu affidata all’artista Gio Mazzetti che con solerzia si mise al lavoro e forgiò nel marmo la magnifica fontana e occorre osservarla da prospettive insolite per ammirarne i particolari.
È un lavoro fine e raffinato, ecco la colonna e le teste d’ariete che reggono la vasca.

Spicca sul barchile il fiero stemma della Repubblica di Genova.

E l’acqua zampilla allegra dalla bocca di un piccolo satiro collocato lassù, al centro della coppa.

E quanta importanza aveva poi quel barchile: fu infatti la prima opera pubblica realizzata nella zona di Ponticello, così vibrante di vita e di commerci.
Il barchile era infatti di grande utilità per i molti bottegai e venditori della zona e anche per tutta la gente che ogni giorno si riversava nella Piazza di Ponticello: in questa folla operosa spiccavano le “camalle d’aegua”, le portatrici d’acqua ricordate da Tomaso Pastorino nel suo articolo.
Queste donne forti e vigorose erano per lo più provenienti dalla zona di Montoggio e dai suoi dintorni e avevano il duro compito di occuparsi dell’approvvigionamento dell’acqua: con fatica e pazienza portavano l’acqua nelle case caricandosi il secchio di legno o di rame sul capo.
Erano davvero tempi difficili e noi non sappiamo neppure immaginarli.

La bella fontana realizzata dal Mazzetti rimase nella sua collocazione per lungo tempo, nella seconda metà dell’Ottocento tuttavia ci fu chi sosteneva che non fosse più adatta a quella zona in quanto là non c’erano più le erbivendole.
E chissà quante chiacchiere attorno al barchile, qui mi corre l’obbligo di ricordare una volta di più la celebre Madama Cinciallegra che ebbi modo di presentarvi in questo post.
Malgrado tutto il barchile rimase al suo posto, mentre tutto attorno il mondo rapidamente mutava rinnovandosi ancora.
In quella di fine Ottocento e per uno scorcio del Novecento, attraversando Piazza Ponticello, avreste veduto la fontana con la sua acqua zampillante.

Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

Poi all’improvviso una certa idea di modernità prese il sopravvento.
Nel 1935 il quartiere di Ponticello, con i suoi caruggetti e le sue antiche case alte, fu demolito e cadde sotto i colpi del piccone per lasciar spazio agli edifici moderni della zona di Piazza Dante e delle strade circostanti.
La Piazza di Ponticello, per la precisione, si trovava nell’area ora occupata dall’attuale parte bassa di Via Fieschi nel punto in cui essa si incrocia con Via Porta d’Archi.
Cambiò così ancora una volta la fisionomia della città e tutti coloro che vennero in seguito non ebbero mai il privilegio di camminare in quelle antiche strade di Genova, di questo io sempre mi rammarico.
La fontana, come è evidente, fu preservata e venne collocata in una posizione considerata più consona: fu posizionata infatti nel Cortile a Levante di Palazzo Ducale e lì rimase per un certo periodo.
L’immagine che segue è parte della mia piccola collezione e la mostra appunto tra le armonie della dimora dei Dogi.

Trascorsero ancora molti altri giorni e poi sul finire degli anni ‘90 la fontana venne collocata nel luogo nel quale ancora adesso la vediamo: in Campetto, nella nostra amata città vecchia.

E ancora là rimane, testimone di un passato distante che a volte cerchiamo di rievocare, tentando di ascoltare ancora l’eco delle voci delle besagnine e delle donne del popolo attorno alla fontana.
Mentre il tempo scivola e scorre come l’acqua che fluisce nel barchile di Piazza Ponticello.

Un genovese in America: il re della farinata

Questa è la storia di un uomo che fece fortuna in terre lontane e il suo ricordo ci è stato tramandato da un attento giornalista che scrisse la sua vicenda su Il Lavoro del 20 Dicembre 1928.
Sono passati quasi 90 anni e torniamo a quell’epoca, entriamo in un ristorante di Genova dove troviamo il nostro giornalista in compagnia di 3 persone: sono genovesi DOC, lo si capisce da come parlano in dialetto.
Uno della brigata è molto celebre: si tratta del cantante Mario Cappello, una vera icona della genovesità.
Si chiacchiera amabilmente ed è proprio Cappello a fare le presentazioni: il giornalista sa che uno dei commensali è il famoso re della farinata di Buenos Aires?
Stupore e costernazione, chi se lo sarebbe mai aspettato!
Un italiano di Argentina partito in cerca di miglior sorte, un genovese ritornato a casa sul filo della nostalgia.
Del resto anche il terzo della compagnia viene da quella città, vive là da ben 48 anni ma appena può se ne torna nella Superba a respirare aria di casa.
Il re della farinata è apprezzatissimo in quel Buenos Aires: là tutti lo chiamano Santiago ma in realtà il suo nome è Sangiacomo.

E così il cantante Mario Cappello racconta come si sono conosciuti.
Accadde durante una tournée in Argentina, Cappello narra di essersene andato a fare un giro per le strade di Buenos Aires quando ad un tratto ad attirarlo fu un profumo delizioso.
E mentre stava leggendo l’insegna del negozio sentì un uomo rivolgersi a lui con queste parole:
– Scià intre: son zeneize mi ascì!
E la frase significa: entri, sono genovese anch’io!
L’artista non se lo fece dire due volte e apprezzò talmente quella farinata tanto da dire che gli era parso di essere dalla Bedin in Piazza Ponticello!

Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

Ma com’era il negozio del re della farinata nella lontana Buenos Aires?
Intanto si trovava in pieno centro, in Piazza del Congresso.
E si trattava appena di una saletta senza posti a sedere, per carità!
E sapete che c’era sempre la coda? Un flusso interminabile di gente si metteva pazientemente in fila per acquistare una gustosa porzione di farinata da mangiare in piedi oppure da portare a casa.
E tra i clienti c’erano gentiluomini e signore eleganti: arrivavano in automobile, scendevano e come tutti si mettevano in coda da Santiago.
Una cosa che a Genova non poteva certo capitare, in quegli anni quelli della buona società non andavano mica a comprare la farinata in Ponticello!
Santiago aveva clienti illustri, da lui si servivano artisti e politici.
E lui parlava a tutti rigorosamente in genovese e diceva che comunque lo capivano tutti.
E sapete cosa capitava? Qualche argentino lo ripagava con la stessa moneta e prima di andarsene lo salutava così: adios, gringo.
E il nostro ci rideva su sostenendo che quello era un termine per loro affettuoso come per noi lo è la parola foresto, veniva detto per scherzo e tenendo presente che gli italiani che andavano in Argentina trovavano davvero l’America.
A quanto pare poi la nostra cucina laggiù era apprezzatissima, così scrive il giornalista.
Sembra strano, prosegue l’autore, vi sembra possibile far fortuna a Buenos Aires servendo solo della farinata e in un locale senza posti a sedere?
Eccome!
Il nostro Sangiacomo se la passava bene e gli affari andavano alla grande tanto che se ne era venuto a Genova proprio per assumere un aiuto e chissà che altro sarà capitato negli anni a seguire.
Il racconto termina qui, il lungo e interessante articolo offre il ritratto di un genovese andato in America in cerca di una vita migliore.
E certo, mentre scrivevo di lui mi è venuta in mente una canzone che tutti conoscete, la più famosa di Mario Cappello, il celebre cantante che portò all’onore delle cronache un genovese di Argentina.
In ricordo di Sangiacomo, detto Santiago, il re della farinata di Buenos Aires.

Genova, 1913: la faccenda dell’ombrello

Il professore era una persona a modo, ne sono certa.
Garbato ed elegante, pacato nelle sue maniere, lo immagino così.
Il professore non avrebbe mai pensato di incappare in sgradevoli impicci, il professore era uno stimato docente in un particolare campo della medicina, ricopriva un ruolo di grande importanza all’Ospedale di Pammatone.
Come lo so? Eh, grazie ai miei fidati libri del passato, cari amici!
Insomma, l’emerito professore non si sarebbe mai aspettato di finire sul giornale per vicende spiacevoli e invece accadde: era la primavera del 1913 e il fatterello che lo riguarda venne pubblicato su Il Lavoro, il caso ha voluto che io leggessi questa notiziola e quindi sono qui a raccontarvela.
Dunque, era una bella mattina di maggio e il nostro studioso, come spesso usava fare, se ne andò alla Biblioteca Civica.

Si immerse nelle sue ricerche, si mise a leggere pesanti tomi che erano la fonte del suo sapere e certo non notò nulla, era troppo impegnato con i suoi libri.
Quando giunse il momento di andare si accorse del fattaccio: l’ombrello che aveva lasciato sul tavolo era malauguratamente scomparso!
Il professore non esitò: andò dritto in questura e denunciò l’increscioso accaduto.
Il commissario lo rassicurò e si deve dire che fece un buon lavoro, infatti in un battibaleno recuperò il paracqua e sapete dov’era finito?
Al banco dei pegni in Piazza Ponticello, succedeva di tutto in quella piazzetta!

Cartolina appartenente alla Collezione di Eugenio Terzo

Il professore, con grande sollievo, riebbe il suo ombrello.
Il ladruncolo venne acciuffato e fu assicurato alla giustizia, si scoprì persino che aveva questa brutta abitudine di aggirarsi per le sale della Biblioteca per impossessarsi degli oggetti degli studiosi.
Con una brillante operazione le autorità scoprirono pure che quel tale pochi giorni prima alla Posta Centrale aveva sottratto anche l’ombrello di uno sfortunato giovanotto e immaginate la faccia di costui quando lo riebbe indietro!
E torniamo al professore, c’è un dettaglio che ho finora tralasciato di dirvi: il magnifico paracqua del nostro studioso era di seta e aveva il manico d’argento cesellato.
Il suo legittimo proprietario lo riebbe ed io mi sono chiesta che fine abbia fatto questo accessorio che visse quella malcapitata disavventura.
Forse è stato conservato?
Forse i discendenti lo tengono come un cimelio di famiglia? L’ombrello del bisnonno!
E magari nulla sanno di quella vicenda, non vi nascondo che mi piacerebbe cercarli per raccontare loro l’accaduto.
Purtroppo non abbiamo un ritratto del professore ma a certe persone caparbie e curiose potrebbe sempre capitare di trovarlo, non credete?
Una cosa è certa: se lo stimato professionista possedeva un ombrello così raffinato avrà anche avuto splendidi bastoni da passeggio e ogni volta che mi capiterà di vedere eleganti accessori per gentiluomini mi verrà in mente lui.
Un caro saluto a lei, esimio professore, sono felice che abbia ritrovato il suo prezioso paracqua.

Via della Maddalena

Le pescivendole di Piazza Ponticello

Va sempre a finire così, qualche solerte cittadino prima o poi prende carta e penna e scrive una bella letterina al giornale, in questo caso si tratta del quotidiano Il Lavoro, lettura assai diffusa in questa Genova degli anni ’20.
E dunque, quale sarà mai il problema?
Il mercato del pesce in Piazza Ponticello, cari amici!
Un cittadino angustiato scrive al cronista facendo presente che quel pesce non si presenta nelle migliori condizioni, per non parlar degli olezzi che impestano la zona!
Piazza Ponticello è una zona amatissima e animata da grande passaggio.
E insomma, sono parecchi quelli che si lagnano: c’è un’altra bella missiva scritta da un gruppetto di cittadini.
E sapete cosa dicono?
Questa piazzetta graziosa e ridente, nel cuore vivo della Superba, è ridotta in modo davvero indecoroso.

Piazza Ponticello (3)

Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

Eh già, qui si vende di tutto, dalla carne alle verdure, la pulizia però lascia molto a desiderare.
Per non dire del fatto che Ponticello è il convegno della teppa, testuali parole! Ohibò!
Ciò che più suscita disagio e indignazione sono proprio quei quattro banchi di pesce, disgrazia dei passanti e degli abitanti di Ponticello!
Ma insomma, le autorità che fanno?
Ricordano i solerti cittadini che già si è revocata la licenza della vendita ambulante dei mitili: che si faccia lo stesso con queste pescivendole, la Piazza è sempre maleodorante a causa di quei loro maledetti banchi!

Piazza Ponticello

E loro, le pescivendole?
Credete che se ne siano state zitte? Ma manco per idea, figuriamoci!
Ed ecco giungere al giornale la loro piccata e puntualissima replica, l’hanno firmata tutte e quattro, loro si chiamano Rosa, Teresa, Maria e Benedetta.
Ma scherziamo? I cittadini mugugnano perché il loro pesce non è buono?
Tanto per iniziare l’Ufficio d’Igiene controlla minuziosamente: il pesce venduto dalle pescivendole di Ponticello è ottimo ed è lo stesso che vendono tutti gli altri negozianti, sia chiaro.
Come fanno tutti, anche loro quattro vanno di buon mattino in Pescheria ad acquistarlo e come è noto là c’è un vigile che controlla.

Pesce
E insomma, a leggere la loro lettera io me le sono immaginate le infervorate pescivendole di Ponticello.
La Rosa è la più agguerrita, ci giurerei, chissà perché mi pare di vederla: un donna energica, dalle braccia forti e muscolose.
La Benedetta invece è una donnina smilza e un po’ avanti negli anni, è una che non si è mai risparmiata.
Altrettanto decise e di carattere le altre due della compagnia, sono esistenze faticose le loro: il lavoro al banco del pesce, una casa da tirare avanti e i bambini attaccati alle gonne.
E poi a Messa la domenica, certo.
La fatica di ogni giorno è tanta e ci si mettono persino le malelingue a complicare le cose, sapete per quale ragione c’è gente che ce l’ha con loro?
Beh, è presto detto, le quattro fiere pescivendole lo hanno messo nero su bianco nella lettera spedita al giornale: il loro pesce è venduto a 10 centesimi in meno, ecco svelato l’arcano!
Questa piazza che non ho mai veduto a poco a poco sta diventando reale grazie alle storie che emergono dal lontano passato.
Hanno un volto i bottegai e gli abitanti della Piazza, hanno un viso i numerosi avventori e le signore eleganti che passano in questa zona del centro di Genova.
E questa storia come sarà finita? I banchi saranno stati lasciati al loro posto oppure no?
Non saprei dirvelo ma provate a osservare bene.
Quella che urla a squarciagola per vendere le acciughe è la Teresa e che guance rosse ha la Maria, fa caldo in Piazza Ponticello, in questo scorcio d’estate.
È la fatica di ogni giorno di semplici vite, ognuna di esse ha scritto una piccola pagina nella storia del mondo in una piazza perduta di Genova.

Piazza Ponticello (4)

Cartolina appartenente alla Collezione di Eugenio Terzo

Le tracce di Piazza Ponticello

È una piazza che non ho mai veduto ma ci sono stata tante volte e voi siete venuti con me.
Là ho trovato figli del popolo, portavano scarpe scalcagnate e giacchette lise, avevano guance arrossate per l’emozione e occhi ingenui.
Ragazzini vissuti in un tempo distante, tutti riuniti attorno alla fontana di Piazza Ponticello.

Piazza Ponticello 9

Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

E poi ho incontrato una donna ciarliera e chiacchierona, quanto mugugnava Madama Cinciallegra per gli schiamazzi della gente del quartiere: casa dopo casa, bottega dopo bottega, lei ha passato in rassegna tutti gli abitanti della piazza ed è stato come proprio come vedere ognuno di loro.
E poi sono entrata in ogni negozio di Vico Dritto, c’erano mercerie e ombrellai, salumerie e friggitorie, tutti i vivaci colori della vita per nulla appannati dallo scorrere del tempo.
Quella piazza è perduta e scomparsa, non so quanti genovesi sappiano dire come davvero fosse, per quanto si provi ad immaginarla credo che sia impossibile esserci davvero, anche se io a volte credo di vivere proprio in quel mondo là che non ho mai veduto.
Cammino per le strade e mi sembra di trovarmi in luoghi che non esistono più, sono nella mia immaginazione e nelle fotografie in bianco e nero di quel tempo ormai svanito.

Vico Dritto di Ponticello

E a volte in un istante scorgi dettagli che in realtà sono sempre stati lì: sei tu che non li hai mai notati.
E questo è ciò che mi è accaduto qualche giorno fa, camminavo in Via Fieschi e andavo verso via XX Settembre.
Ho alzato gli occhi e ho visto quella Piazza e quel palazzo sulla destra, come già vi ho detto in precedenza la parte in ombra era Via Rivotorbido, adesso lì sorgono altri edifici.

Piazza Ponticello (4)

Cartolina appartenente alla Collezione di Eugenio Terzo

Questa zona ai giorni nostri si presenta in questa maniera.

Via Fieschi

Osserviamo meglio, torniamo indietro nel tempo e incontriamo ancora quella numerosa famiglia della quale ho immaginato la vita, queste persone si sono fatte fotografare davanti alla loro bottega.

Piazza Ponticello (11)

E alzate gli occhi, guardate l’edificio che adesso si trova tra via Fieschi e Via Porta d’Archi.
Abbiamo salvato frammenti del nostro passato e li abbiamo anche dimenticati, non so quanti genovesi conoscano l’originale collocazione di questi marmi.

Via Fieschi (2)

Al centro c’è una lastra in memoria di Antonio Gallo, notaro e cancelliere del Banco di San Giorgio, sodale di Colombo del quale narrò i viaggi, credo che la storia di questo genovese meriti il dovuto approfondimento.

Antonio Gallo

E forse ricorderete, sull’edificio che ospitava la macelleria si vedevano parzialmente un Crocifisso e la Madonna Addolorata raccolta in preghiera.
Quel palazzo ai giorni nostri non esiste più.

Piazza Ponticello (9)

Gesù e Maria, invece, sono ancora nel luogo dove un tempo erano, in quella che in altri anni fu Piazza Ponticello.
Non so proprio descrivervi il mio stupore, per qualche istante mi è davvero sembrato di essere in quella Piazza tante volte immaginata.

Crocifisso

All’estrema destra dell’edificio c’è anche una Madonna con il Bambino, entrambe le statue meriterebbero qualche riguardo e certo se fossero pulite da questa patina scura la loro bellezza risalterebbe maggiormente.

Madonna con il Bambino

C’è un tempo che non abbiamo vissuto e non sappiamo nemmeno ricordarlo, non sappiamo trattenere quel filo che ci unisce a ciò che siamo stati.
Come già vi dissi in un precedente articolo, nelle cartoline d’epoca che ho veduto sull’angolo di Piazza Ponticello si nota quel Crocifisso, il lato del palazzo sul quale era collocata la Madonna con il Bambino non è entrato nelle inquadrature.
Di una cosa sono certa: la gente di Ponticello rivolgeva le sue preghiera alla Madre di Dio e a quel Suo Figlio venuto al mondo per la salvezza del mondo.
Un segno della croce, una preghiera sommessa, una speranza sussurrata davanti a quelle statue che molti di noi non hanno neanche mai veduto.

Piazza Ponticello (3)

Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri 

Una bottega in Piazza Ponticello

Te la racconto io la mia storia perché questa è la mia famiglia.
Quel giorno è venuto il fotografo in Ponticello, in quella piazza i miei genitori hanno la loro bottega.

Piazza Ponticello

A casa tutti mi chiamano Checchin ma il mio vero nome è Francesco.
Io lassù ci volevo proprio salire, mi hanno fatto indossare l’abito buono, mi hanno messo il basco sulla testa, poi babbino mi ha preso in braccio e mi ha fatto sedere lì.
Non sarei più sceso, l’ho detto alla mamma!

Piazza Ponticello (2)

E c’erano i miei fratelli Berto e Vincenzo, sul fondo vedete Gioacchino, il garzone di bottega.
Con loro mia nonna Serafina, la nonna non sa leggere e scrivere, mi ricorda sempre che io sono un bambino fortunato, quando era giovane lei la vita era assai più difficile.
La nonna è molto religiosa, ogni mattina va a pregare nella chiesa dei Servi, si inginocchia davanti all’altare e ripete l’Ave Maria e il Padre Nostro.
Piano piano, come fa ogni sera prima di addormentarsi.

Piazza Ponticello (3)

La nonna ha un cruccio per la sua prima figlia: la zia Colomba non si è mai sposata ma tanti anni fa aveva un galante, era uno che andava per mare e alla nonna non piaceva per niente.
Un brutto giorno lui partì per Napoli e non tornò più, quanto ha pianto la zia Colomba!
E a volte mi sembra che la zia sia rimasta malinconica, anche nella fotografia sembra quasi triste.
Accanto a lei c’è mia mamma Adele, la mamma ha sempre un bel sorriso che le illumina il volto.
E la bimba seduta sul maialino è invece  la mia sorellina Desiderata.

Piazza Ponticello (4)

Mio padre si chiama Agostino, lui mi ha insegnato che nella vita contano poche cose: l’onestà, la modestia, la pazienza e il buon cuore.
E si deve essere timorati di Dio e ricordarsi sempre dei poveri e di tutti quelli che hanno meno di te.
Il mio babbino non lo vuol far sapere ma lui aiuta sempre la Scià Luigia, quella vecchia che chiede la carità in Vico Berrettieri.
La mia è una famiglia di lavoratori e tutti si spaccano la schiena per mettere il pane sulla tavola.

Piazza Ponticello (4a)

Il nostro negozio è proprio in Ponticello, lì accanto c’è la Bedin con le sue farinate, io ogni tanto vado là, corro dietro al bancone e mi regalano anche le fregugge.

Piazza Ponticello (6)

È bella la nostra bottega, tutti vengono a comprare da noi.

Piazza Ponticello (7)

E ci lavora anche lo zio Bartolomeo, lui è bravo a tagliare la carne.
La signora vicino a lui è la besagnina Geronima, ha voluto esserci anche lei nella fotografia, era molto emozionata quel giorno.

Piazza Ponticello (8)

Sopra il nostro negozio c’è un crocifisso, Lui ci protegge tutti, la nonna dice che è stato proprio Gesù a salvarmi da quella febbre che l’anno scorso per poco non mi portava via.

Piazza Ponticello (9)

Lui è mio fratello Pietro, era fiero di tenere quel coltello tra le mani.
Accanto c’è mia sorella Filomena, lei è una ragazza timida e taciturna, ama fare i pizzi e ricamare.
Vorrebbe diventare cucitrice ma la mamma dice che qui nella bottega c’è bisogno del lavoro di tutti, Filomena è una che sogna ad occhi aperti e con i sogni non ci si riempie la pancia, così dice sempre la mamma.

Piazza Ponticello (10)

Questa è la mia famiglia.
Il mio babbino è fiero della sua bottega, siamo nati tutti qui, in Ponticello, nel centro di Genova.
Il mio mondo è dove sono la mia casa e la mia famiglia, gente semplice e onesta.
La mamma mi ha detto che questo giorno lo ricorderò per sempre, anche quando sarò grande.
E nel pronunciare queste parole mi ha messo la mano sul petto e mi ha detto:
– Tienilo qui, in un angolo del cuore.

Piazza Ponticello (3)

Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

Le immagini che avete veduto appartengono ad un amico, sono tratte da una delle sue antiche fotografie, lui le colleziona e le custodisce salvandole dall’oblio, lo ringrazio per avermela inviata.
Le persone ritratte in questa scatto avevano vite che si possono solo immaginare, così ho inventato i loro nomi, le storie e le emozioni.
E so bene che un bambino di un altro secolo userebbe un linguaggio differente dal mio, io ho solo cercato di guardare il suo piccolo universo con i suoi occhi.
Io non ho mai usato il termine “babbino”: ho lettere e cartoline di mio nonno indirizzate a suo figlio che era mio padre e mio nonno in quelle missive si firmava così.
Le strade e i luoghi citati non esistono più, sono scomparsi per lasciar posto ad una nuova città.
La bottega si trovava all’angolo di Piazza Ponticello, osservate la cartolina che segue: nella parte destra, sul fondo, c’è un edificio ad angolo e sul muro accanto alla finestra del primo piano si nota il crocifisso parzialmente immortalato anche dal nostro fotografo.
La strada in ombra che parte da Piazza Ponticello si chiamava Via Rivotorbido, là si trovava la celebre Bedin famosa per le sue farinate, questo negozio in seguito ebbe altre collocazioni.

Piazza Ponticello (12)

Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

Un giorno il fotografo Persico andò in questa zona viva e popolosa e ritrasse questa famiglia davanti alla porta del negozio.
E c’era una piccina, per noi è una vera stranezza ma l’hanno messa seduta proprio sul maialino.
E c’era un bambino e forse davvero si chiamava Checchin, mi piace crederlo.
Non conosco nulla di tutti loro, ho solo una incrollabile certezza: ognuno di loro ha conservato la memoria di questo istante, per sempre, in un angolo del cuore.

Piazza Ponticello (11)

Le botteghe di Vico Dritto di Ponticello

Alcuni luoghi puoi solo provare a immaginarli, la maniera in cui saprai vederli dipende solo da te.
Un quartiere di case umili e di giornate che scivolano via veloci, sapresti dire quanta vita non hai veduto?
Immaginala, passo dopo passo, pensa di camminare in questo caruggio dalle case alte, Vico Dritto di Ponticello.
Sul mio annuario Pagano del 1926 si contano ben 104 numeri rossi, vuoi vederla la vita?
La vita è nelle voci chiassose, nelle mani ruvide e nodose, nei tessuti spessi di certi grembiuli, nei pizzi leggeri tenuti da conto per le grandi occasioni, nei lenzuoli che pendono tra un palazzo e l’altro.
E la vita è in quelle botteghe, vuoi vederle tutte? Sono talmente tante!
Dal primo tratto fino al numero trenta rosso si contano tre negozi di calzature e uno di pellami, uno di sali e tabacchi, un salumiere e un orefice, una bottega di casalinghi, un bar e un caffè, un paio di parrucchieri, due pollivendoli e due macellerie.
Sfrigola l’olio nella friggitoria di Antonietta Valgrana, candida è la biancheria di Agostino Ferrando e bianche sono le stoviglie di Lagomarsino.

Vico Dritto di Ponticello

Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

Luccicano i gioielli dell’orefice, profuma di buono la cartoleria, il liutaio perfeziona i suoi strumenti e nelle tre osterie si brinda con un vino corposo.
E cammina ancora.
Ecco la pasticceria Musso e i tessuti di Razore, procedendo troverai ben sei negozi di scarpe e di fornitori per calzature.
Fresca e linda è la bottega che vende coloniali ai suoi clienti, da un forno esce l’aroma fragrante del pane e il profumo di dolce proviene di sicuro da Panarello.

Panarello (23)

Vetrina di Panarello – Corso Carbonara

Vuoi vederla la vita?
Guarda la faccia del Signor Ivaldi, lui fa il pollivendolo come il Signor Faccioli, a poca distanza dalla sua bottega ci sono una cartoleria e un negozio di pellami, invece Pavesi vende acciughe salate.
Ecco ancora diverse osterie, una trattoria e un ristorante.
E un macellaio, un parrucchiere e un ombrellaio.
E vedi, vedi com’è la vita, in Ponticello c’è una fabbrica di acque gazzose, non è distante dal panettiere e dal Banco del Lotto dove alcuni tentano la fortuna.

Vico Dritto di PonticelloCartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

E poi ci sono Peschiera e Parodi, di professione calderai, ancora un negozio di biancherie, un pizzicagnolo, una bottega di paste alimentari e un macellaio, un parrucchiere e una latteria, un negozio commestibili e una drogheria.

Casaleggio (17)

Antica Drogheria Casaleggio

E non manca il gusto per le frivolezze, se volete assicurarvi un oggetto speciale c’è Marchese, rinomata ditta di chincaglierie.
Vuoi vederla la vita?
Da Vico Dritto vai verso Piazza Ponticello, magari potrebbe capitarti di sentire parlare di Madama Cinciallegra, qui tutti conoscono lei e i suoi mugugni sul quartiere.

Piazza Ponticello (3)

Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

Vuoi vederli i volti delle persone che abitano qui?
Una la conosci anche tu, è una celebre genovese, si chiamava Caterina Campodonico e vendeva collane di nocciole, abitava proprio là, in Ponticello.

Caterina Campodonico

Sai com’è la vita?
I colori si appannano, i profumi si fanno più lievi e lentamente svaniscono, l’orizzonte muta e si presenta differente.
Ed è la mano dell’uomo ad aver voluto che accadesse questo e ad aver cancellato un quartiere, una strada, un mondo che era e non esiste più.
E anche se ormai c’è soltanto una targa e di tutto il resto non è rimasto nulla, certi luoghi prova ad immaginarli, la maniera in cui saprai vederli dipende solo da te.

Vico Dritto di Ponticello

Madama Cinciallegra e gli schiamazzi di Piazza Ponticello

Conoscete Madama Cinciallegra?
E’ una genovese dalla parlantina sciolta e ci accompagnerà in un luogo di Genova perduta.
Mi sono imbattuta in lei per puro caso, ritrovandomi a leggere un componimento di Steva De Franchi, nobiluomo e poeta genovese vissuto nel ‘700, autore di rime scritte nel dialetto della Superba.
Ho condiviso questa mia scoperta con un caro amico che mi onora di leggere queste pagine, il suo nome è Pino e parla alla perfezione il genovese, ne è un vero maestro.
E da persona gentile e generosa si è offerto di tradurre per me questa poesia, Pino mi ha fatto uno splendido regalo del quale lo ringrazio di cuore.
E allora vi racconterò alla mia maniera questa poesia che offre un suggestivo spaccato di quotidianità genovese di un altro tempo, vi porterò là, nella piazza di Genova che non esiste più e che si trovava nella zona dell’attuale Piazza Dante.
Piazza di mercato e di popolo, piazza di gente semplice.

Piazza Ponticello (2)

Piazza Ponticello
Cartolina appartenente alla Collezione di Eugenio Terzo

E c’è anche Madama Cinciallegra che si confida con un’amica e narra cosa le tocchi sopportare ogni giorno, questi sono gli schiamazzi che sente Madama Cinciallegra sulla Piazza di Ponticello, ovvero Ri sciaratti che sente Madonna Parissoeua Sciu’ra Ciaçça de Pontexello, questo è il titolo della poesia.
Dunque, dovete sapere che la nostra Madama abita solo da qualche mese in Ponticello, prima stava alla Marina poi ha bisticciato con una vicina di casa e ha pensato bene di traslocare.
Non lo avesse mai fatto, si è andata a cacciare in un bel guaio!
E infatti si lamenta:

Figgia caa! nè dì, nè noeutte
chi no se peu ciù quietâ!

Figlia cara! né di giorno né di notte
qui non si può più quietare!

Di mattino presto ci si mette  quello del latte, a gran voce offre la sua bevanda che vende pura, rappresa, cotta o cruda.

Venditore di Latte

Venditore di latte
Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

E poi si levano i profumi, gli odori e i rumori dei forni, le voci tonanti dei bottegai della piazza che chiamano i clienti.
Castagnacci, cioccolata e sfogliatelle, ce n’è per tutti i gusti!

Castagnaccio

Panificio Sebastiano

E guardate un po’, lo vedete quell’ometto curvo? E’ un zembetto, un gobbetto, fa il merciaio, anche lui ha roba interessante da offrire.
E uno sbraita che ha crusca da vendere, l’altro urla che sa riparare le sedie, se qualcuno ha bisogno si faccia avanti!
E intanto c’è quello che chiama lo spazzino, Piazza Ponticello è un vero bailamme!

Piazza Ponticello

Piazza Ponticello
Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

Serve dell’aglio? Naturalmente qui ne troverete in abbondanza:

Pe oeutto sodi çento teste
Chi voeu l’aggio, vendo reste
Chi voeu l’aggio da pestâ?

Per otto soldi cento teste
Chi vuole l’aglio, vendo reste
Chi vuole l’aglio da pestare?

Aresu (16)

Polleria Aresu

E la besagni-na, la verduraia, con quel suo tono da litania pare quasi cantare mentre enumera i doni della terra che colmano le sue ceste: lattughetta, radicchio fresco e cetrioli.
Ponticello è un caravanserraglio di gente, uno strepito di voci, urla e grida.
E c’è tutto, stringhe e fibbie, aghi, pettini e calamai, uno espone il gioco dell’oca e il lunario con il calendario dell’anno che verrà.
C’è legna da ardere nel fuoco scoppiettante, ci sono ricotte bianche e morbide, vengono da ogni parte a vendere in Ponticello, laggiù c’è un villico di Albaro, lo vedete?

Piazza Ponticello (3)

Piazza Ponticello
Cartolina appartenente alla Collezione di Stefano Finauri

E tutto questo per la disperazione di Madama Cinciallegra, povera donna!
Non riesce più a sopportare quello con il violino, più che suonare sembra che torturi le corde, non ha il minimo talento!
Un ambaradan che non finisce mai, c’è un tipo nero nero, è lo spazzacamino e se non è lui a far confusione ci si mettono il falegname, lo scalpellino e il calderaio.
Per non dir dello speziale, batte con il pestello e fa tremare le finestre mentre un altro grida: formaggi, aringhe e baccalà!

Pesce

Mercato Orientale

E piano piano il giorno sta per terminare, forse adesso Madama Cinciallegra potrà starsene in santa pace?
Macché, sentite cosa dice:

Ve stimæ ch’a se finìa?
Pensate che sia finita?

Magari!
Passano i garzoni con asini carichi e muli, intanto il tavernaio urla a gran voce: la torta calda è pronta!
E certe donne invece vendono il sedano per l’insalata, e quando la povera Madama pensa di poter finalmente riposare le orecchie salta su quella che grida che ha le panisse belle pronte e fumanti!

I fritti

Friscieu,  panissa e latte brusco – Ristorante il Genovese

E il peggio deve ancora venire, con il buio dal fondaco viene un can can che non vi dico!
Gente che gioca alla morra per ingannare il tempo!
E poi:

 Spie, camalli e pellendoin
Che se dan pugni e pattoin

Spie, camalli e pelandroni
Che si danno pugni e schiaffoni.

E gli innamorati? Ah, violino, canti e chitarre, povera Madama Cincialliegra!
Quando la musica finisce  ecco che si ricomincia con ben altro, ahimè!
E attacca il fornaio e poi è il turno del pastaio, tutta queste persone fanno un rumore del diavolo e la nostra Madama non ne può davvero più!
E sapete cosa ha deciso?
Se ne andrà a stare al Castellaccio, sulle alture di Genova, ben lontana dai frastuoni di Piazza Ponticello.
E così terminano le disavventure di Madama Cinciallegra.
Io ho dei ringraziamenti da fare e sono rivolti a dei veri amici.
Grazie a Pino per la sua preziosa traduzione, senza di lui non credo che avrei compreso ogni parola di questa poesia.
Grazie a Eugenio Terzo e Stefano Finauri, come sempre le loro collezioni di cartoline mi permettono di vedere Genova scomparsa, è un regalo grande questo.
E infine ancora grazie all’illustre  Steva De Franchi, desidero includere anche lui tra i miei amici, lui che con le sue parole ha saputo farmi ascoltare gli schiamazzi di Piazza Ponticello.

Piazza Ponticello (4)

Piazza Ponticello
Cartolina appartenente alla Collezione di Eugenio Terzo