Camminando nel passato vicino a Giuseppe Mazzini

Ritorniamo a camminare nel passato di Genova, nella sua parte centrale dove il monumento che raffigura il nostro Giuseppe Mazzini vigila sui genovesi e su tutto coloro che percorrono la zona di Corvetto.

E ancora adesso è così e ogni volta che passo da quelle parti porto sempre un saluto al mio celebre concittadino.

La mia cartolina ci porta a un tempo diverso nel quale un certo Corrado inviava così i suoi saluti affettuosi destinati alla signorina Giulia di Firenze.
E lì, alla base della scalinata e del monumento del patriota, c’era un cavallo con il suo carretto, in questo tempo più lento e differente dal nostro.

E c’erano un uomo con pesante sacco e una gentile signora armata di parasole.

Era un giorno diverso e la vita scorreva piano, camminando nel passato vicino a Giuseppe Mazzini.

21 Maggio 1848: Vincenzo Gioberti a Genova

Ritorniamo ai tempi del fervore patriottico, ai giorni di primavera del 1848 durante i quali si attende con trepidazione un illustre visitatore: Vincenzo Gioberti.
Pensatore, teologo, sacerdote e patriota, Gioberti ricopre in quel momento l’incarico di Presidente della Camera dei deputati del Regno di Sardegna, è un protagonista del suo tempo e della nostra storia e in quelle ore genovesi l’imminenza del suo arrivo in città accende i cuori e riscalda gli animi.
È il 20 Maggio quando si riceve la conferma che egli giungerà ad ore nella Superba: si chiudono le botteghe, una fiumana di gente si dirige verso la porta dalla quale si crede che entrerà Gioberti, le mura della città si coprono di manifesti con la scritta Viva Gioberti!
Tutti rimangono ad attenderlo fino a tardi e il nostro infine si palesa a notte fonda: a bordo di una carrozza scortata dalla Guardia Nazionale giunge così all’Hotel Feder in Via al Ponte Reale.
E tutto attorno c’è un gran trambusto, la gente si accalca tra grida di giubilo, i genovesi alle finestre e ai balconi osservano con fiera partecipazione.

La mattina dopo lo aspetta ancora una folla e una calca di gente, Gioberti si affaccia più volte dal balcone della sua camera d’albergo e ringrazia i genovesi per la calorosa accoglienza, naturalmente egli riceve in modi diversi anche tutti gli onori dalle varie autorità cittadine.

Tra i suoi recenti trascorsi Gioberti annoverava anche l’esperienza del carcere: nel 1833 era stato infatti arrestato come cospiratore mazziniano e in quella circostanza aveva condiviso la cella con un certo Grondona.
Grondona, al tempo della visita genovese di Gioberti era Maggiore della Guardia Nazionale e così non mancò certo di palesarsi ai suoi occhi, riportando alla memoria di Gioberti quei giorni difficili: narrano le cronache che i due si abbracciarono, in un istante di autentica commozione.
La mattina di domenica 21 Maggio, dove aver partecipato alla messa, Gioberti si recò a compiere una visita particolare: andò infatti a trovare Maria Drago, madre di Giuseppe Mazzini e, anche se le visioni politiche di Mazzini e Gioberti certo non collimavano, l’incontro con l’anziana madre del patriota fu denso di commozione.

Casa natale di Giuseppe Mazzini
Museo del Risorgimento e Istituto Mazziniano

La sera del 21 Maggio in Piazza Caricamento gli venne poi tributato un ulteriore omaggio, la piazza è gremita di folla, l’orchestra e i cori del Teatro Carlo Felice offrono uno spettacolo straordinario e cantano per Gioberti il coro dell’Ernani cambiando alcune parole, invece di pronunciare a Carlo Magno Gloria intonano invece al Gran Gioberti Gloria.
Ho trovato notizie del soggiorno di Gioberti a Genova nel libro di Giovanni Monteleone Storia di un teatro: il Carlo Felice edito da Erga nel 1969, ulteriori diversi approfondimenti sono reperibili in altri testi più antichi e risalenti alla seconda metà dell’Ottocento.
Gioberti lasciò l’Hotel Feder la mattina del 22 maggio, incedendo tra due ali di rappresentanti della Guardia Nazionale.
Le campane suonavano a festa e nell’aria risuonavano i colpi di cannone, gran festa salutò l’illustre ospite.
Giunto a bordo del vapore Lombardo Gioberti volse il suo sguardo verso la costa, dove sventolavano le bandiere tricolori al ritmo della musica suonata dalle bande.
Così accadde in un giorno di maggio del 1848, sotto il cielo di Genova.

A Giuseppe Mazzini

“Ebbi a lottare con il più grande dei soldati, Napoleone.
Giunsi a mettere d’accordo tra loro imperatori, re e papi.
Nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe Mazzini.“

Klemens von Metternich – Memorie

A Giuseppe Mazzini, nel giorno della sua morte.
22 Giugno 1805 – 10 Marzo 1872

Giuseppe Mazzini
Opera di Giulio Monteverde
Museo del Risorgimento – Istituto Mazziniano di Genova

Michele Novaro, artefice di possenti armonie

Il suo nome è legato indissolubilmente alla storia d’Italia e a quelle note del nostro inno nazionale che Michele Novaro compose.
Una musica fiera, concitata e colma di passione che accompagna le parole ardenti scritte da un altro genovese, quel ragazzo di nome Goffredo Mameli a me tanto caro.
Il Canto degli Italiani, comunemente noto come Inno di Mameli, è in realtà l’Inno di Mameli e di Novaro ed è una delle più belle pagine patriottiche di questa nostra Italia che tanto spesso pare dimenticare i suoi eroi anche se in certi cuori la memoria di loro rimane sempre viva e presente.
E al Museo del Risorgimento Istituto Mazziniano di Genova, si trova anche lo sguardo di lui: Michele Novaro, così ritratto dal Maestro Giuseppe Isola.

Opera esposta al Museo del Risorgimento Istituto Mazziniano di Genova

Come Mameli, anche Novaro era genovese e, per un caso del destino, i due nacquero in due case situate a breve distanza una dall’altra.
Mameli nacque in San Bernardo, Novaro invece ebbe i natali il 23 Dicembre 1818 in una dimora situata in Vico Vegetti al civico 18 in un portico oggi murato come narra il Dottor Leo Morabito, già direttore del Museo del Risorgimento Istituto Mazziniano di Genova, nel suo volume Genova Risorgimentale.

Novaro fu musicista, compositore, cantante lirico, tenore e maestro di canto e direttore dei cori del Teatro Regio e del Teatro Carignano, era particolarmente versato proprio per la musica patriottica.
Abita a Torino in quel 1847 in cui il suo destino si intreccia a quello di Goffredo: Novaro ha 29 anni, Mameli ne ha 20.
È una sera di novembre e Novaro si trova nella casa torinese del patriota Lorenzo Valerio quando giunge il pittore Ulisse Borzino che consegna a Michele un foglio pronunciando queste parole: To’, te lo manda Goffredo.
E Novaro legge, si commuove, le parole di Mameli lo avvolgono in un unico afflato patriottico: sul foglio ci sono i versi dell’Inno, quel Canto degli Italiani sul quale Novaro comporrà la sua musica.
Michele Novaro si siede al cembalo e inizia a imbastire qualche nota, il furore e la fretta si fanno concitati così egli lascia la casa di Valerio e, una volta giunto nella propria dimora, senza neanche togliersi il cappello si mette al pianoforte e compone così l’armonia del nostro Inno Nazionale.
Ho già avuto modo di raccontarvi questo aneddoto nel mio articolo dedicato a Mameli e al Canto degli Italiani ma era inevitabile riportarlo di nuovo in questa occasione.

Il Canto degli Italiani
Opera esposta al Museo del Risorgimento Istituto Mazziniano di Genova

Quel canto così ardente infiammò i cuori dei patrioti che lo intonarono in quel 10 Dicembre 1847 in occasione della processione al Santuario di Nostra Signora di Loreto in Oregina.

Quel Canto degli Italiani consegna così Mameli e Novaro alla storia d’Italia.

La vicenda umana del giovane Goffredo, sacrificatosi per la patria e per i suoi ideali, fu breve e tragica, quella di Novaro fu lunga ma la sua carriera non fu particolarmente fortunata, egli ebbe spesso problemi di natura economica.
Si sposò, divenne padre, il suo ardore patriottico non lo abbandonò.
Nel volume Il Teatro Carlo Felice cronistoria dal 7 aprile 1828 al 27 febbraio 1898 di Ambrogio Brocca ho trovato notizia di un’iniziativa del Maestro Novaro risalente al 13 Febbraio 1860.
In quel giorno, infatti, egli organizzò in teatro un concerto musicale in favore della sottoscrizione per il milione di fucili promossa dal Generale Garibaldi.
E intervennero molte bande cittadine, venne eseguito anche Il Canto degli Italiani, una grande folla applaudì l’evento in un tripudio di autentico patriottismo.

Generoso e appassionato, a metà degli anni ‘60, Novaro istituì una Scuola Gratuita Popolare di Canto per ambo i sessi che arrivò presto ad annoverare un centinaio di allievi che impararono così il canto da uno delle figure più importanti per questa nostra patria.
Ho cercato notizia di questa sui miei libri antichi e nella Guida Commerciale di Genova del 1874-75 di Edoardo Michele Chiozza ho trovato traccia di lui tra i maestri di musica e canto, la sua scuola risultava in quella Piazza de’ Tessitori oggi scomparsa a causa dei bombardamenti della II Guerra Mondiale, si trovava nella zona tra Piazza delle Erbe e Salita del Prione.

Il maestro Michele Novaro, come già detto, ebbe in sorte poca fortuna e solo in tarda età ormai nel 1878, ricevette l’incarico di maestro di canto nelle scuole municipali di Genova.
Il ritratto di Giuseppe Isola ci mostra il Maestro Novaro ritto in piedi con la penna tra le dita e appoggiato al pianoforte, sul leggio è posto lo spartito con il suo e nostro inno e sventola il tricolore nel quadro che ci tramanda l’immagine di colui che compose quelle note immortali.

Opera esposta al Museo del Risorgimento Istituto Mazziniano di Genova

Michele Novaro morì a Genova il 20 Ottobre 1885 e riposa nel Boschetto Irregolare del Cimitero Monumentale di Staglieno non distante da Giuseppe Mazzini e da molti altri patrioti che là dormono il loro eterno sonno.
La scultura che custodisce le spoglie del Maestro è opera dell’artista Giovanni Battista Cevasco che ne fece dono.

Su di essa si staglia una lira racchiusa da una corona d’alloro, come si conviene a colui che compose quella musica magnifica.

In memoria di lui le parole di Arrigo Boito così incise su candido marmo.

E così, ritornando nella quiete di Staglieno, andate a porgere il vostro omaggio anche a lui e ricordate quel giorno, a Torino, provate a immaginarlo mentre stringe tra le mani il foglio con le parole di Goffredo Mameli.
E sentirete risuonare quella musica, tanto potente quanto cara.
Qui riposa il Maestro Michele Novaro: genovese, patriota e artefice di possenti armonie.

Francesco Moro detto il Baxaicò: un eroico popolano

Questa è la storia di un eroe del popolo, un fiero patriota al quale dobbiamo la nostra grata riconoscenza.
Uomo di semplice estrazione sociale, Francesco Moro nacque a Genova nel 1821 ed era un fervente seguace degli ideali di Giuseppe Mazzini.
Figura anche il suo nome tra coloro che furono coinvolti nei moti di Genova del 1857, l’insurrezione era stata organizzata in ogni dettaglio, come racconta lo storico Attilio Depoli nel libro L’emigrazione politica in Genova e in Liguria dal 1847 al 1857 volume III pubblicato dalla Società Tipografica Editrice Modenese nel 1957.
Sul finire di giugno doveva attuarsi l’impresa di Carlo Pisacane e da principio, secondo i piani di Mazzini, pare che i moti di Genova e Livorno dovessero verificarsi prima della spedizione di Pisacane alla volta del Sud.
Pisacane era di un’idea diversa, così si stabilì che appena si fosse avuta notizia a mezzo telegramma dell’avvenuto sbarco della Spedizione di Pisacane nelle terre napoletane sarebbero esplose anche le sommosse a Genova e Livorno, questo doveva avvenire nella notte tra il 28 e il 29 Giugno di quel 1857.
A Genova il fervore politico era alimentato e accresciuto nei circoli e nei comitati delle Società operaie, il pensiero mazziniano faceva battere forte i cuori e accendeva gli animi.
Come è noto, l’impresa di Pisacane terminò con l’eccidio di Sanza, con la morte di Pisacane e con l’arresto dei sopravvissuti, il moto di Genova nel frattempo non ebbe successo.
Si narra che, in quella notte prescelta, ci fosse un gran movimento dalle parti di Prè e in Via di Vallechiara, in quella zona e nei vicoli vicini c’erano anche i depositi di armi.
I fili del telegrafo tra Genova e Torino vengono troncati, i rivoltosi puntano ai forti, all’assalto di Forte Diamante risulta che ci siano una cinquantina di persone e tra di essi si dice che ci sia anche lui: Francesco Moro, detto il Baxaicò.

A leggere la sentenza del processo risalente all’autunno di quell’anno ci si accorge di quanto fosse variegata la compagine mazziniana.
La sentenza elenca tutti gli accusati, a quell’epoca 49 di loro sono già detenuti e fra di essi c’è Francesco Bartolomeo Savi giornalista, poeta ed insegnante, c’è il Marchese Ernesto Pareto, noto amico di Mazzini e c’è anche Miss Jessie White, definita sedicente letterata.
E poi c’è un popolo di ardenti patrioti: sono sarti, calzolai, ombrellai, caffettieri, orefici e falegnami.
Sono padri e figli dell’Italia, i loro nomi significano giovinezza e coraggio, alcuni di loro poi hanno dei soprannomi che raccontano il loro furore e così vorrei ricordarne alcuni:
Alessandro Gaggi, sarto di anni 23, detto l’Inferno.
Antonio Valla, facchino di anni 23, detto il Medaglia.
Carlo Banchero, oste di anni 19, detto Moschetta.
Noli Paolo di anni 19, fabbricante d’armoniche, detto Figlio della bella Manena.
Nomi che narrano di gioventù, sfrontatezza, patriottismo e grandezza d’animo.
E tra questi nomi lui: Francesco Moro, di anni 38, facchino, detto Baxaicò, detenuto già dal 2 Luglio.
Baxaicò in genovese vuol dire basilico e non sapete quanto mi piacerebbe conoscere la ragione di questo nome di battaglia!

Ci sono anche 22 latitanti, il primo della lista naturalmente è lui, l’istigatore di tutte le rivolte e delle insurrezioni: Giuseppe Mazzini.

Monumento a Giuseppe Mazzini di Santo Saccomanno – Palazzo Tursi (Genova)

Francesco Moro, facchino da carbone, uomo che conosceva il valore della fatica e del lavoro, fu condannato per quei fatti a 20 anni di lavori forzati e a 10 anni di sorveglianza.
Scontò una breve parte della sua pena e lasciò il carcere a seguito dell’amnistia del 1859.
Da allora fu sempre in prima linea e partecipò a tutte le campagne fino al 1867, era stimatissimo da Garibaldi che lo teneva in grande considerazione.
E tra i volontari giunti a Marsala, al seguito del nizzardo c’era anche lui, Francesco Moro.
Il patriota lasciò le cose del mondo in un giorno d’autunno del 1874.

Egli riposa in un luogo particolare, all’ombra degli alberi nel Boschetto Irregolare del Cimitero Monumentale di Staglieno dove è eretta la stele in sua memoria.

Se salirete fin lassù, percorrendo la scalinata, cercate la tomba del più illustre genovese, quel Giuseppe Mazzini che con il suo pensiero guidò questi valorosi ed eroici patrioti.

La stele in memoria di Francesco Moro è stata collocata proprio qui, davanti al tomba di Giuseppe Mazzini, quel grande italiano del quale l’umile facchino era amico e seguace, i due dormono il loro sonno eterno così vicini.

Sul marmo sono incise molte diverse parole in memoria di Baxaicò.

E alcune di esse che potete leggere nella foto seguente furono dettate dal Generale Giuseppe Garibaldi in persona che, come già detto, nutriva grande stima per questo eroico uomo del popolo.

Un sasso lo ricorda, gli amici conservarono la sua memoria.
Anche noi siamo amici di Francesco Moro e di tutti coloro che furono messi in catene per il loro pensiero e per una certa idea di Italia.

Andando a Staglieno a rendere dovuto omaggio ai padri della patria troverete pensatori, militari, figure di rilievo e personaggi illustri, tra loro c’è anche Francesco Bartolomeo Savi che è a me tanto caro.
Andando a Staglieno a rendere il dovuto omaggio a Giuseppe Mazzini volgete lo sguardo anche verso colui che fu amico suo, suo sodale e suo compagno.
Lui era Francesco Moro, detto il Baxaicò, tipo glorioso degli eroici popolani.

Nostra Signora di Loreto: il Santuario dei patrioti

Vi porto con me nella quiete di una chiesa molto cara ai genovesi: il Santuario Nostra di Loreto si staglia contro l’azzurro del cielo e si erge maestoso sulla Piazza di Oregina.

È una chiesa ampia e vasta, la sua edificazione risale agli inizi del ‘600 e venne realizzata nel luogo dove pochi anni prima era stata costruita una piccola cappella fondata da alcuni monaci.
Il Santuario fu arricchito da molte diverse opere e abbellito grazie alla generosità di molti benefattori.
E sebbene non tutto sia come era in origine Nostra Signora di Loreto resta una chiesa splendida e molto suggestiva.

Un santuario, una città, la sua storia.
Andiamo così ai tempestosi giorni del 1746 quando in città infuriano i combattimenti contro l’invasore austriaco.
È il 9 Dicembre e Genova è in tumulto: al Santuario si trova un religioso, il suo nome è Candido Giusso e prega per la salvezza di Genova e del suo convento.
Scende la notte e, narrano le cronache, accade un fatto straordinario.
Padre Giusso apre la finestra e vede la luna e poi tra le nuvole gli appare la figura dell’Immacolata Concezione con la serpe ai suoi piedi, poco distante, in ginocchio e in devota preghiera, c’è Santa Caterina da Genova.
E Padre Giusso continua a pregare, quell’apparizione dura piuttosto a lungo.
Il giorno successivo segna un punto di svolta per la città: è il 10 Dicembre 1746, sono i tempi del Balilla e di molti altri eroi che portano a termine la sconfitta e la cacciata degli austriaci.
Il Senato, giunto a conoscenza dell’apparizione, stabilisce così che poi si debba sempre rendere grazie alla Madonna per aver salvato Genova dal nemico.
Si decide così che ogni anno, il 10 Dicembre, le autorità si recheranno in pellegrinaggio al Santuario.
E là, sulla facciata, è dipinta la scena di quell’apparizione.

Padre Candido qui riposa, nel silenzio della sua chiesa.

Ogni anno così i fedeli si recavano il processione al Santuario, questo accadde fino al 1810 quando un decreto napoleonico stabilì la soppressione degli ordini religiosi e il Santuario venne chiuso per poi riaprire tre anni dopo.

Sull’altare, con questa grazia, è posta la statua della Madonna di Loreto.

Trascorsero poi altri anni e giunse il tempo di diversi furori.
È il 10 Dicembre 1847 e ad infiammare i cuori dei genovesi è un prode ragazzo indomito e valoroso: il suo nome è Goffredo Mameli.

Goffredo Mameli, olio su tela di Domenico Induno
Opera conservata all’Istituto Mazziniano – Museo del Risorgimento di Genova

Sono trascorsi 101 anni dal giorno dell’apparizione e il corteo che salirà al Santuario è straordinario ed eccezionale, questo evento passerà alla storia e non verrà dimenticato.
E ci sono 35.000 persone e sventolano le bandiere e battono i cuori e forte si leva un canto: è il Canto degli Italiani scritto da Mameli su musiche di Michele Novaro.
È il nostro inno nazionale, cantato per la prima volta nelle strade di Genova: così si rinnova il ringraziamento a Maria e al tempo stesso si riafferma il desiderio degli italiani di essere una sola nazione.
Guidati da Mameli i patrioti cantano con l’intensità del loro amor patrio, di quel 10 Dicembre scrissi già tempo fa in questo articolo.
I patrioti salgono su per le creuze ripide di Genova e intonano quelle parole che anche noi conosciamo.
Questa scala che conduce al Santuario è denominata Scalinata Canto degli Italiani.

E poi immaginate quei valorosi mentre giungono in questo luogo che è anche uno straordinario punto panoramico: dalla Piazza di Oregina si vedono Genova, il suo porto e i suoi tetti, quell’orizzonte infinito come gli ideali di Goffredo Mameli.

È un luogo dalle molte suggestioni e se verrete a Genova vi invito a scoprirne la bellezza.

È una chiesa ampia e luminosa, cosi suggestiva e densa di storia di Genova e della nostra nazione.

Qui riposa anche un valente artista, lo scultore Bartolomeo Carrega.

E tra queste mura dorme il suo sonno eterno il patriota Alessandro De Stefanis, protagonista dei moti genovesi contro il governo sabaudo.

L’epigrafe sulla sua tomba ci ricorda il suo valore e il suo coraggio.

Qui, nella bella chiesa di Oregina potrete ammirare un dipinto di Giovanni Maria delle Piane, detto il Molinaretto, artista vissuto tra il 1660 e 1745.
È l’Angelo Custode che così lieve si libra nell’aria, ho una particolare predilezione per questo quadro.

Vi è anche un quadro del pittore seicentesco Giovanni Andrea Carlone: questo è San Giuseppe con Gesù fanciullo.

E dolce è lo sguardo della Madonna di Loreto posta sull’altare.
Questa statua un tempo era collocata all’interno di una piccola costruzione situata davanti all’altare al centro della navata ed edificata ad imitazione della casa di Nazareth, questa piccola cappella fu poi rimossa negli anni ‘20.

Armoniosa è la grazia di certe figure che ammirate in questa chiesa, statue di santi sono collocate nelle nicchie sulle pareti laterali.

Il sole attraversa le vetrate e così ravviva i colori.

In questo luogo di fede così legato alla storia di Genova e alla fede autentica dei genovesi.

Questa è la bellezza di Nostra Signora di Loreto, il Santuario dei patrioti.

Guardando lontano

Vi porto con me, davanti al mio orizzonte.
In un luogo magnifico e speciale, sulla Piazza di Oregina, nello spazio antistante al Santuario di Nostra Signora di Loreto.
C’è un belvedere, ci sono le panchine e tutta Genova è ai vostri piedi.
Qui, in questo luogo, il 10 Dicembre 1847, dopo 101 anni dalla cacciata degli austriaci, il giovane e audace Goffredo Mameli condusse un folto corteo di cittadini a ringraziare la Madonna per la liberazione della città dal nemico e nella circostanza tutti loro dimostrarono quanto fossero uniti nel desiderare una sola nazione.
Qui, nell’aria fresca di un lontano inverno, per la prima volta risuonarono le note e le parole di quel Canto degli Italiani che diverrà nostro inno nazionale.
Lo sguardo si perdeva lontano, con coraggio e fiducia.
Davanti al mare luccicante per i raggi del sole che battevano sui tetti di ardesia, sui caruggi, sugli abbaini, sui visi speranzosi, sul profilo della Lanterna.
Semplicemente così, guardando lontano.

Domenico Cardente: il destino di un esule

Questa è la storia di un patriota, un ragazzo venuto dal Sud vissuto nell’epoca risorgimentale.
Domenico Cardente appartiene ad una ricca famiglia di Marzano Appio, in provincia di Caserta, il giovane respira già in casa il fervore degli ideali unitari e e insieme a suo fratello Felice entra a far parte della Carboneria.
Sono tempi convulsi, la gioventù di questi patrioti si spende nel perseguimento di uno scopo politico ed è proprio il fratello Felice ad essere una figura cardine di quel tempo.
Felice è laureato in diritto civile ed è uno dei più appassionati sostenitori dell’Unità d’Italia: tra le vicende che lo riguardano una in particolare mostra la caratura del personaggio.
È il 1860 quando le sue azioni divengono particolarmente sgradite al governo borbonico: Felice e il fratello Cesare vengono arrestati e gettati in un’oscura prigione del carcere di Gaeta.
Dopo poco Felice Cardente, con le catene ai polsi e ai piedi, da Gaeta viene condotto nel carcere di Teano.
In seguito giunge in quella località il Generale Giuseppe Garibaldi con le sue vittoriose Camicie Rosse: in quel 26 Ottobre si compie infatti lo storico incontro di Teano tra il Generale Garibaldi e Vittorio Emanuele II.
E sempre in quel medesimo giorno è Garibaldi stesso a far liberare i due fratelli Cardente.

Opera esposta al Museo del Risorgimento – Istituto Mazziniano 

A partire dal 1861 Felice Cardente sarà Deputato dell’Ottava Legislatura del Regno d’Italia e coprirà questa carica fino al 1865, anno della sua morte.
E suo fratello Domenico?
Per riprendere i fili della storia di lui occorre fare un passo indietro e tornare al tumultuoso 1848, in quell’anno Domenico con il fratello Felice è protagonista dei moti rivoluzionari: le sue azioni e le sue iniziative politiche lo mettono in pericolo e costringono il giovane Domenico all’esilio, così egli lascia la sua terra.
Approderà in questa città, vivrà stimato tra i molti esuli che popolano le vie di Genova.
Dei suoi giorni genovesi si trova traccia nel volume Alessandro Poerio a Venezia, lettere e documenti del 1848 edito nel 1884 da Morano (Napoli).
In questo libro si legge che Domenico Cardente visse con alcuni compagni emigrati in Albaro: insieme a lui c’erano l’eroico combattente Gaspare Musto e i fratelli Mezzacapo.
La dimora nella quale essi abitarono è celebre in quanto tra queste stesse mura aveva vissuto anche il poeta Lord Byron.

Tra le righe di questo volume è riportato poi anche un altro aneddoto.
Ci fu un periodo durante il quale il nostro Domenico dimorò in un mezzanino in cima a Via Luccoli, le finestre della sua casa erano alla stessa altezza di Piazza Fontane Marose.

Un bel giorno uno di questi patrioti era là nella casa del Cardente e se ne stava a declamare una sua tragedia mentre un altro, attorniato da altri emigrati, si affacciava dalla ringhiera in Fontane Marose e sporgendosi scherniva il suo compagno.
Ora quando passerò di là sarà per me inevitabile pensare a tutti loro, credetemi!

Non so dirvi quale vita condusse in questa città Domenico Cardente: era lontano dalla sua casa, qui aveva la sua rete di sodali, con i suoi amici condivideva idee e convinzioni politiche.
Come lui, anche loro avevano lasciato le loro terre, erano esuli in un luogo lontano e distanti dalle loro case.
Per mie motivazioni personali ho avuto modo, in passato, di approfondire la storia di altri esuli e devo dire che, a volte, queste vicende umane hanno diversi punti in comune.
Non so quali altri affetti abbia trovato Domenico Cardente qui a Genova: era un uomo giovane e appassionato, ardeva per i suoi ideali e forse qui trovò anche l’amore di una donna.
Ho seguito la traccia di Domenico e ho così trovato notizie di lui e del suo più celebre fratello nel volume Il Parlamento del Regno D’Italia descritto dal Cavalier Aristide Calani Milano 1860.
E arriviamo così all’epilogo di questa vita così breve ed intensa.
Accadde in un giorno d’estate del 1852: in quella stagione calda il destino di Domenico Cardente si compì.
Il giovane esule morì, ad appena 29 anni, colpito da una malattia polmonare che non gli diede scampo, la notizia è anche riportata dal Giornale Italia e Popolo del 10 Luglio 1852.
Ad assisterlo amorevolmente fino all’ultimo istante fu il Generale Enrico Cosenz, il cronista del Giornale Italia e Popolo ricorda con un certo rammarico che ad aggravare la situazione di Cardente fu anche la sofferenza dell’esilio.
Gli resero onore i suoi amici più cari, un discorso accorato fu pronunciato dal patriota Francesco Carrano.
Forse vi chiederete cosa mi abbia spinto sulle tracce di un giovane così votato all’ideale patriottico.
Un giorno, all’ombra della Galleria Inferiore a Ponente del Cimitero Monumentale di Staglieno, ho letto il suo nome.
Domenico Cardente.
Esule da Napoli.

Allora oggi io sono qui, a pronunciare ancora una volta il suo nome.
Questo, in qualche modo fa ancora la differenza, a parer mio.
A un certo punto il tempo posa il suo velo sulle vite, sulle fatiche di ognuno, sui pensieri e sugli ideali per i quali alcuni sacrificano la propria esistenza.
Domenico morì nel fiore della sua giovinezza, non vide l’Italia unita che desiderava costruire.
Una volta ancora, ripeto il suo nome, fatelo con me.
Domenico Cardente.
Esule da Napoli.
Visse per 29 anni.
Onorato e della patria amatissimo.
Questo è il mio ricordo di te, Domenico, scritto in un tempo che non hai conosciuto, nella città che ti accolse, in questa Italia che adesso esiste anche grazie ai giovani valorosi come te.

Pietro Lanza Principe di Trabia, Butera e Scordia: storia di un patriota siciliano

Questa è la storia di un patriota venuto da lontano.
Pietro Lanza, Principe di Trabia, Butera e Scordia, nacque a Palermo nel 1807 da Giuseppe Lanza Principe di Trabia e dalla nobile Stefania Branciforti.
Uomo ricco di ingegno e dalle molte attitudini, fin da giovane brillò negli studi e per i suoi talenti, appena ventottenne era già Pretore di Palermo.

In questo suo importante ruolo si distinse nella particolare circostanza dell’epidemia di colera che nell’estate del 1837 implacabile dilagò a Palermo.
Lanza, coraggioso e indomito, si prodigò in molti modi per la sua città e per la sua gente, narrano le cronache che in certi giorni di luglio il colera a Palermo arrivò ad uccidere mille persone al giorno.
Il giovane pretore, ligio al senso del dovere, rimase nella sua città e in aiuto ai suoi concittadini fino alla fine dell’epidemia.
Giunse così l’anno 1838 e Pietro Lanza, con la sua consorte Eleonora Spinelli Caracciolo, si recò a Parigi dove partecipò a corsi scientifici e a lezioni di scienze morali, alla Sorbona seguì le lezioni di diritto penale del celebre Pellegrino Rossi.

Uomo di legge e di scienze, Lanza pubblicò lavori storici sulla sua Sicilia.
Da Parigi sul finire di maggio raggiunse poi Londra e qui presenziò all’incoronazione della Regina Vittoria, in seguito andò in Belgio e poi in Svizzera.
Tornando a Palermo trovò al suo posto di questore un successore in quanto, per una serie di circostanze, pare che fosse stato ingiustamente esonerato dal suo incarico.
Lanza proseguì con immutato impegno nei suoi studi, si dedicò quindi all’amministrazione del ricco patrimonio di famiglia.
Giunse quindi il 12 gennaio del 1848, in quegli anni di fermento, si rinfocolò il fuoco dello scontento: sono i giorni della rivoluzione siciliana.
E tra coloro che prendono parte ai moti siciliani c’è anche lui, Pietro Lanza: quando il 25 Marzo 1848 viene proclamato il Regno di Sicilia Pietro Lanza prende il suo posto nella Camera dei Pari, a lui verranno in seguito affidati il Ministero della Pubblica Istruzione e dei Lavori Pubblici, in questo suo ultimo ruolo tra le iniziative delle quali si occupa con autentico fervore c’è anche la realizzazione della Via della Libertà a Palermo.

Fu ancora pretore della sua città e in seguito fu chiamato a far parte del Ministero Stabile e gli fu affidato il portafoglio degli Affari Esteri.
Il Lanza, tuttavia, non sapeva che i casi del destino e della politica lo avrebbero condotto lontano dalla sua isola: nel 1849, infatti, i Borboni riconquistarono la Sicilia e per Lanza e per tutti coloro che avevano preso parte alla politica del Regno di Sicilia si aprirono tristemente le porte dell’esilio.
Era un giorno di aprile del 1849 quando Pietro Lanza lasciò la sua Sicilia a bordo di un vapore della Marina Militare Inglese, non avrebbe mai più rivisto la sua terra natia.
Per qualche tempo rimase in Francia e poi, a partire dall’Ottobre del 1849, si stabilì a Genova.

Ebbe rapporti con le figure illustri del tempo, da Genova spesso si recava a Torino dove incontrava Cavour e coloro che gravitavano negli ambienti dell’emigrazione politica.
A Genova fece parte dell’Accademia di Filosofia Italiana fondata da Terenzio Mamiani, qui fu spesso in prima linea a fornire soccorso ai molti esuli come lui venuti da lontano.
Viaggiò molto durante gli anni del suo esilio e sempre curò l’amore per le lettere e per le scienze, Lanza fu anche autore di diverse pubblicazioni dove mostra il carattere del suo ingegno.
Fu durante uno dei suoi viaggi che trovò la fine: Pietro Lanza Principe di Trabia, Butera e Scordia soffriva di epilessia, durante un suo soggiorno a Parigi la sua malattia si aggravò e il 27 Giugno 1855 eglì esalò l’ultimo respiro.
Forse vi starete chiedendo cosa mi abbia spinto a scrivere la vicenda di questo patriota, figura non così nota alla maggioranza delle persone.
Io ho scoperto la vicenda di lui poco tempo fa e così mi sono premurata di cercare notizie sulla sua vita e le ho trovate in particolare nel volume Il Risorgimento Italiano Biografie Storico Politiche d’Illustri Italiani Contemporanei a cura di Leone Carpi pubblicato dall’Antica Casa Editrice di Francesco Vallardi nel 1886.
Le pagine dedicate al patriota siciliano sono state scritte dal Professor Salvatore Lanza di Trabia, in quelle righe si legge che Pietro Lanza riposa nella sua Palermo, nella tomba di famiglia.
Come comprenderete, è piuttosto improbabile che io riesca a ristabilire l’esatto corso degli eventi ma vorrei aggiungere qualche notizia e qualche considerazione che spiegherà cosa mi ha condotto sulle tracce di Pietro Lanza.
Qualche giorno fa, infatti, mi trovavo nella Chiesa della Santissima Concezione e Padre Santo, un luogo che racchiude innumerevoli storie del passato.

Non ci si sofferma mai abbastanza a lungo a leggere le lapidi di coloro che qui vennero accolti a riposare nel loro sonno eterno.
Una di quelle candide tombe accenna ad una storia, lascia la traccia di un uomo stimato e virtuoso.

Gli esuli mestissimi che furono compagni dei suoi giorni, nella città di Genova, con evidenza ebbero una parte nello scrivere per il loro sodale queste parole.
Sembrerebbe pertanto che, per un periodo, Pietro Lanza abbia riposato in questa chiesa, nel silenzio mistico di Padre Santo.

Per un caso i miei occhi hanno trovato il suo nome e allora ho voluto farlo riemergere e in qualche maniera farlo ritornare sotto la luce che rischiara le vie di Genova, città che nei suoi giorni di esule lo accolse e lo ospitò.
Così a voi porto il ricordo di lui: Pietro Lanza, Principe di Trabia, Butera e Scordia, ardente patriota siciliano.

Dicembre 1858: nasce a Genova l’Inno di Garibaldi

È un giorno d’inverno del 1858 in una casa di Genova: è la dimora di un patriota di nome Gabriele Camozzi, bergamasco ed esule politico che è solito radunare in quelle sue stanze molti altri esuli presenti nella Superba.
Il 19 Dicembre di quel 1858, in occasione di una di quelle riunioni, si presenta anche un personaggio illustre: è Giuseppe Garibaldi, nella circostanza c’è anche Nino Bixio.

Garibaldi stringe mani, riscalda i cuori, tutti si avvicinano a lui.
Tra quelle persone c’è anche un rinomato poeta che risiede a Genova e insegna al Collegio delle Peschiere, con i suoi versi ha suggellato uno dei momenti più tragici della storia d’Italia: si tratta di Luigi Mercantini, autore della poesia La Spigolatrice di Sapri scritta in memoria di Carlo Pisacane e dei drammatici eventi della Spedizione di Sapri nella quale perì lo stesso Pisacane e con lui molti altri patrioti.
Garibaldi discorre con Mercantini, a lui chiede di comporre un canto per i suoi volontari: un canto per far ardere i cuori durante la battaglia e da intonare dopo la gloriosa vittoria.
Mercantini onorato accetta, Camozzi propone che sia la moglie del poeta, talentuosa pianista, a comporre la musica.

L’anno volge al termine e l’ultimo giorno di Dicembre gli esuli ancora si trovano a casa di Gabriele Camozzi.
Tutti attendono il volgere degli eventi e con impazienza aspettano di udire le parole prescelte da Mercantini e destinate ai volontari di Garibaldi.
Così, quando il poeta fa il suo ingresso, gli animi si scaldano e i cuori prendono a battere forti all’unisono mentre Mercantini pronuncia quei suoi versi che tutti voi certo conoscerete:

Si scopron le tombe, si levano i morti
I martiri nostri son tutti risorti!
Le spade nel pugno, gli allori alle chiome
La fiamma ed il nome d’Italia nel cor!

Uno scroscio di applausi accolse quelle parole, la signora Mercantini si mise al piano e fece sentire alcune note nella musica prescelta: a comporla non era poi stata lei, l’arduo compito era stato infatti affidato ad Alessio Olivieri, capobanda della Brigata Savoia.
L’evento è narrato con dovizia di particolari tra le pagine della rivista A Compagna del mese di Maggio del 1930.
Quel giorno, in quella dimora, riecheggiarono le parole di Mercantini e tutti i presenti si misero a cantare l’Inno.
Dopo lo sbarco di Marsala il canto patriottico prese il nome di Inno di Garibaldi, Mercantini aggiunse i versi finali sul finire del 1860.

Genova, città dei patrioti, conserva molte memorie di quei giorni gloriosi, anche se a volte i luoghi della storia vengono quasi dimenticati e su di essi si posa inesorabile il velo del tempo.
Luigi Mercantini dimorava in un edificio non più esistente in Via Dei Sansone, anche la casa del patriota Gabriele Camozzi ai nostri tempi non esiste più.
Trascorsero 50 anni dal giorno della partenza dei Mille, nel Maggio 1910 nella Superba si tennero speciali celebrazioni: tra le varie iniziative su quella dimora che un tempo fu casa del patriota Camozzi fu apposta una lastra commemorativa in memoria di quegli eventi.
Come già ho scritto la casa non esiste più, si trovava in Passo dello Zerbino e al suo posto oggi svetta questo edificio di recente costruzione.

La targa marmorea è stata conservata e affissa sul questo nuovo palazzo, tuttavia si trova molto in alto ed anche un po’ difficile da leggere.
Non so quanti genovesi conoscano questo edificio e questo marmo che ricorda un memorabile giorno del nostro passato, io credo sempre che questi luoghi andrebbero valorizzati nella loro vera unicità, senza inutili orpelli e nel rispetto della storia passata.
Trascrivo così per voi i versi scolpiti nel marmo.
Quando vi trovate in Passo dello Zerbino alzate lo sguardo: là passò anche l’Eroe dei Due Mondi, là il poeta Luigi Mercantini declamò davanti a un pubblico di ferventi patrioti L’Inno di Garibaldi.

QUI IN CASA DI GABRIELE CAMOZZI
CAPO DELLA RIVOLUZIONE DELLE VALLI BERGAMASCHE
NEL 1848-49
SOCCORRITORE DI BRESCIA EROICA AGONIZZANTE
LUIGI MERCANTINI
COMPAGNO D’ESILIO A DANIELE MANIN
CANTORE DI TITO SPERI DI CARLO PISACANE
NEL DICEMBRE 1858
PROVAVA L’INNO DA LUI COMPOSTO
PER INCARICO DEL DUCE
E MUSICATO DAL GENOVESE ALESSIO OLIVIERI
PERCHÉ INFIAMMASSE LE ROSSI COORTI NELLA PUGNA
CONTRO I SECOLARI OPPRESSORI D’ITALIA
E NE FOSSE IL PEANA
NEL RITORNO DALLA VITTORIA
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A RICORDO A EDUCAZIONE DEL POPOLO
A GLORIA DELL’INGEGNO CONSACRATO ALLA PATRIA
IL MUNICIPIO DI GENOVA
NEL CINQUANTESIMO DALLA PARTENZA DEI MILLE.
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LA LAPIDE PROVIENE DALLA VECCHIA CASA GIÀ ESISTENTE NELLO STESSO SITO.